All’inizio del nuovo film di Federica Di Giacomo c’è un lutto. Quello di un gruppo di amici che avevano racchiuso le loro esistenze nell’illusione di un’utopia artistica mai realizzata, e all’improvviso si trovano soli: la figura più carismatica, colui che li aveva calamitati e tenuti insieme per anni in questo strano sogno, muore. Sono ancora giovani, sembra incredibile che possa accadere eppure accade. Questa improvvisa assenza li costringe a distanza di decenni dalla loro esperienza vissuta insieme a interrogarsi, a guardare un passato che per molti sembra lontanissimo, e per altri invece è un eterno presente, e a rivedersi nel luogo che avevano condiviso e in una memoria che loro malgrado l’amico gli ha consegnato.

«IL PALAZZO», con cui la regista Leone d’oro a Orizzonti nel 2016 con Liberami torna a Venezia – Evento speciale nelle Giornate degli Autori in programma il 3 e il 5 settembre – è il racconto di questo momento, quasi un rito di passaggio in cui si mescolano stati dell’emozione molto diversi, che mettono in gioco ciascuno di coloro che ne è coinvolto, e alla storia del film ne sommano altre. La stessa Federica Di Giacomo che aveva iniziato a girare il film prima della morte di Mauro, questo il nome dell’amico scomparso, era stata costretta a fermarsi per motivi famigliari, la malattia del padre e del nonno e la loro scomparsa: «In quel momento mi sembrava che l’unica cosa sensata di cui potevo parlare era il lutto. Mi sono anche chiesta se era il caso di andare avanti col mio film, ma la vicenda di Mauro, ciò che stavo attraversando io stessa, e che provavano tutti loro, mi ha spinto a farlo. In questo senso Il palazzo è veramente un film corale, che a partire da una perdita interroga molti elementi del contemporaneo. Come l’amicizia, gli amici per la nostra generazione rappresentano una famiglia ma in certe situazioni in che modo reagiscono? Forse abbiamo proiettato sull’amicizia esigenze troppo grandi? O la mancanza di certezze, quella precarietà costante che condiziona i sentimenti».

MA CHI SONO queste persone? Un gruppo di studenti di filosofia col desiderio della creazione artistica, che vivono in questo orizzonte condiviso di passioni e aspettative, il cui centro è appunto Mauro. Ragazze e ragazzi bellissimi, Tiziana, Gianluca, Francesca Andrea – Andrea Zvetkov Sanguigni autore con la regista della sceneggiatura – che passano i giorni e le notti nello spazio divenuto la loro personalissima «factory» nel centro di Roma: il Palazzo, un condominio che appartiene al loro amico/mecenate. Il progetto a cui lavorano è il film di Mauro, un’opera collettiva di cui sono tutti attori e attrici: ore e ore di immagini, di improvvisazioni, di prove, di fuoricampo che si accumulano senza una fine.

E poi? Qualcuno se ne va, altri si perdono, altri ancora rimangono sui bordi tra il «dentro» e il «fuori», mentre il regista si richiude sempre di più nell’appartamento, si ammala, il corpo deborda. «Era molto misterioso Mauro, non usciva di casa da quindici anni, ripeteva ‘un giorno morirò’ ma non ci credeva nessuno. Intanto alcuni di loro erano scappati via, altri invece sono stati risucchiati da questa condizione che non aveva rapporti con la realtà. Forse è questo che mi ha colpita all’inizio perché mi sembrava appunto che riassumesse una condizione attuale comune a molti». dice ancora Federica.

Definiresti «Il palazzo» un film generazionale?
Non voglio generalizzare, perché i protagonisti sono persone specifiche in un contesto specifico. Piuttosto la mia scommessa era quella di rappresentare il disagio attraverso figure non convenzionali, migranti o periferie; loro sono benestanti, fanno parte di un orizzonte vicino a me eppure lo vivono quotidianamente sottopelle, nell’incapacità di esporsi allo sguardo altrui, di darsi una definizione a cominciare da quella lavorativa. Se ci pensi anche il corpo è la reificazione di questo confronto mancato col mondo, Mauro che era distrutto, ingrassato e gonfio, era come se fosse imploso. Ognuno di loro aveva grandi aspettative che la precarietà ha messo in disparte: è uno stato che ritrovo specie in chi fa cultura. Tanti di quell’età (nati negli anni Settanta, ndr) hanno saltato delle fasi, la famiglia, il lavoro salariato, e questo li ha scombussolati nel rapporto tra tempo interno e esterno.

Rispetto a altri tuoi film come «Liberami» in cui usavi il grottesco, sembri prediligere un tono più sfumato.
Il palazzo lavora su una perdita, e la morte di Mauro rappresenta anche la fine dell’adolescenza, del gioco, la consapevolezza di una fase più dolente; io provo a cogliere l’energia particolare che si respira mantenendo però una certa leggerezza – o almeno spero di esservi riuscita. È vero che Liberami aveva una struttura più organizzata ma il soggetto era molto diverso. Per me qui contava soprattutto restituire quel senso di libertà che vivevano i protagonisti anche nel confronto col presente. La scrittura è stata una prima fase, abbiamo creato delle situazioni in cui si potevano esprimere i loro stati mentali, tutti sono stati fantastici perché sanno parlare di sé stessi con grande autoironia fino a essere spietati ma senza retorica. Il secondo momento di costruzione è stato il montaggio (firmato da Edoardo Morabito, ndr): si trattava di creare del movimento in una situazione statica, di rappresentare degli stati d’animo, di mettere in scena una fase in cui si dichiara il fallimento, tutto quello che non si è mai finito – tra l’altro la cosa interessante è che da giovani già mettevano in scena se stessi. Dovevo trovare il modo di dare a tutto questo una verità e di renderlo universale. È stato un lavoro lunghissimo, pieno di esitazioni. Avevamo provato a procedere partendo dai materiali di Mauro, ma l’effetto della relazione tra ieri e oggi in quel modo mi sembrava meccanico. Ho provato allora a creare una triangolazione di sguardi, dove c’è l’archivio di Mauro, che è come lui li vedeva, il suo punto di vista che li ha resi attori, loro che lo rivedono, e le reazioni emotive che questo scatena in ciascuno. Pensavo che così la loro libertà diventi più tangibile. In questo spazio si manifestano gli interrogativi rimasti inespressi sull’amicizia, l’amore, sui bilanci dolorosi delle scelte.

La filosofia di Mauro è quella dell’infinitezza.
A livello filosofico il gesto è tutto, vale molto di più del risultato. Lui ha fatto quello che voleva, non era interessato all’esito sociale ma all’incompiuto. La ricerca costante di una forma vale però per ogni opera, nel cinema ci sono immagini che restano e che assumono una loro compiutezza e altre come i filmini che si facevano con le videocamere quando eravamo giovani che rimangono bambine, ma questo è ciò che rende la ricerca appassionante.