Tre processi aperti negli Stati uniti raccontano un paese che fatica ad esorcizzare antichi demoni e metabolizzare la violenza accumulata in una stagione trumpista che ha risvegliato ed agitato fantasmi nazionali.
A Charlottesville, sono a giudizio i neonazisti che in quella città della Virginia diedero vita nel 2017 al raduno unite the right, costato la vita alla giovane antifascista Heather Heyer. A Kenosha, in Wisconsin, è in corso il processo a Kyle Rittenhouse, il vigilante adolescente e assassino diventato paladino della neodestra trumpista e in Georgia al banco degli imputati siedono i linciatori di Ahmaud Arbery.

L’OMICIDIO di quest’ultimo, un venticinquenne afro americano, risale al febbraio del 2019, quando contribuisce all’indignazione confluita nella stagione di Black Lives Matter che nella torrida estate del 2020 scuote il paese. Gli eventi che portano alla sua morte sono documentati dal video girato da uno dei suoi stessi giustizieri. Quel giorno Arbery, studente fuori corso con la passione dello sport, stava facendo jogging lungo le tranquille strade di Satilla Shores, dove le languide mangrovie che costeggiano i viali e le ville in stile coloniale ricordano piantagioni da southern gothic. Lui abita non lontano, dall’altra parte del ponte ma a mille di chilometri di distanza dal benestante sobborgo bianco, oltre la linea invisibile che attraversa tante cittadine del sud: Brunswick, sull’altra sponda del fiume, con le sue chiese AME (African Methodist Episcopal) e i liquor store, ha 10.000 anime di cui due terzi neri.

Nel video due uomini bianchi a bordo di un pickup inseguono il giovane che a loro dire «aveva un’aria sospetta». Un terzo segue in un’altra macchina, e riprende la scena. Dopo una rincorsa durata cinque minuti in cui Arbery tenta in ogni modo di schivarli, lo affiancano e gli tagliano la strada. Uno dei due, Travis McMichael, salta dal pianale e apostrofa l’uomo in trappola impugnando una carabina. Quando Arbery reagisce, spara un colpo a bruciapelo e Arbery stramazza senza vita. «Mi stava minacciando», dirà del giovane disarmato. «Temevo per la mia vita».

PASSERANNO 74 giorni prima dell’arresto di McMichael, suo padre Gregory che era al volante della pattuglia di vigilantes, e il complice Roddie Bryan. Infatti i tre sono amici del procuratore locale – McMicahel padre ha perfino lavorato per il pm come investigatore. Solo la pubblicazione del video obbligherà il governatore ad ordinare un’inchiesta. «Pensavamo fosse un ladro e lo volevamo fermare» dichiareranno gli uomini dopo l’arresto, ma il loro portamento e la tentata insabbiatura trasudano la solita omertà da good ol’ boys che a quello «sporco negro» (parole di McMichael dopo la sparatoria, stando alla deposizione) avevano voluto dare l’antica lezione: resta sulla tua sponda del fiume.

PER LA FAMIGLIA di Arbery e per tutti gli afroamericani l’iconografia è quella inequivocabile del linciaggio del bianco erto ancora una volta a giudice e giustiziere – la stessa dello strangolamento pubblico di George Floyd che seguirà di lì a poco. E anche in questo caso solo il video incriminante evita che il caso possa essere archiviato e dimenticato come tanti altri. Il processo iniziato la settimana scorsa promette almeno la possibilità della giustizia. Ma le prime battute e non promettono bene. La giuria selezionata – che l’ordinamento impone sia espressione della comunità locale – è invece composta da 11 bianchi e un solo nero.
Anche in Wisconsin intanto c’è trepidazione per il processo a Rittenhouse. Sul banco degli imputati nel tribunale di Kenosha siede un diciottenne brufoloso ad evidente disagio in quella cravatta troppo stretta. Poco più di un anno fa di anni ne aveva diciassette quando con un fucile a ripetizione preso in prestito da un amico, Kyle si era preso la briga di andare a difendere i negozi di quella città dai «saccheggiatori anarchici» che li minacciavano. Così aveva definito sui social i manifestanti che in quei giorni – era l’agosto del 2020 – protestavano contro l’ennesima sparatoria della polizia ai danni di un afroamericano (Jacob Blake, colpito quattro volte alla schiena a bruciapelo mentre montava nell’auto in cui sedevano i due figli piccoli).

APPASSIONATO di videogiochi e armi da fuoco che impara ad amare quando fa parte dei “giovani esploratori” della polizia locale, Rittenhouse è figlio di famiglia blue-collar nel profondo Midwest ed grande sostenitore del suo presidente Trump. I testimoni se lo ricorderanno quel 25 agosto come il ragazzino col grande fucile militare ai margini della protesta. La sua presenza suscita nervosismo e paura, corre la voce «è armato!»… Un manifestante antirazzista, Joseph Rosembaum, 29 anni, tenta di disarmarlo, c’è una colluttazione, Rittenhouse preme il grilletto ammazzandolo sul colpo. Un secondo uomo, Anthony Huber, cerca di prendergli il fucile, Rittenhouse spara altre quattro volte su di lui, ammazzandolo, e farà fuoco ancora un volta ferendo gravemente al braccio un terzo manifestante, Gaige Grosskreutz. Compiuta la strage il ragazzo vaga come in trance, ad un certo punto cerca di raccontare la storia alla polizia: «Ho ammazzato qualcuno», dice agli agenti. «Sì, certo ragazzo, ora però vai a casa…» replicano i poliziotti all’adolescente con l’arma militare ancora imbracciata.

QUANDO INFINE verrà arrestato, Rittenhouse diventerà un simbolo per la destra trumpista. Lo stesso presidente encomia l’assassino definendolo «un patriota». Sul sito appositamente allestito, da tutta America piovono dollari (più di due milioni) per pagare la cauzione del ragazzo-eroe, flagello di Antifa. Per lui viene istituita addirittura una fondazione (#FightBack). A suo favore parlano politici, senatori, i siti estremisti lodano la sua capacità. «È ora di cominciare sparare a questi farabutti bastardi», si legge sui siti radicali. I miliziani suprematisti dei Proud Boys organizzano per lui la festa dei 18 anni con tripudio di selfie. Nei comizi di estrema destra vanno a ruba le magliette che lo dichiarano patriota combattente della nuova guerra civile promossa dagli oltranzisti.
Ora, dopo oltre un anno, si celebra infine anche il suo processo – ma anche qui le prime battute non inducono a ben sperare per l’imparzialità dei procedimenti. La tesi degli avvocati è quella dell’autodifesa, del giovane ben intenzionato a mantenere l’ordine pubblico costretto alla legittima difesa con l’arma costituzionalmente garantita. In apertura delle udienze il giudice, Brice Schroeder, ha sentenziato che nel dibattimento i morti non potranno essere definiti «vittime» («potrebbe pregiudicare l’imputatato») mentre è lecito chiamarli «saccheggiatori».

ENTRAMBI I CASI verteranno insomma sulla legittima difesa di uomini armati che sostengono di essere stati aggrediti da vittime disarmate. E in entrambi sul banco c’è l’ossessione nazionale per le armi da fuoco. A Charlottesville intanto va in scena il processo alla militarizzazione ideologica, la deriva violenta avallata a e fomentata in questi anni dal nazional populismo americano. Il procedimento è a carico degli organizzatori della manifestazione divenuta nota come la “Woodstock dei fascisti” che nel luglio del 2017 chiama a raduno antisemiti, filonazisti e nostalgici “neo – confederati” – quelli che Trump aveva chiamato brave persone. Un “coming out” violento delle forze di estrema destra che prefigura il tentato golpe del 6 gennaio quando la bandiera confederata verrà sventolata nelle aule del Congresso.

I processi in corso sono anche un test dell’era Biden – e della capacità del sistema giudiziario durante la nuova amministrazione di giudicare i crimini di quella precedente. In senso più lato misureranno la capacità del paese di superare un momento buio della Repubblica pur a fronte del fuoco incrociato dell’ostruzione repubblicana su riforme e clima, il massiccio impianto di propaganda che fomenta le “guerre culturali” ed una Corte suprema blindata dalla destra che si appresta a liberalizzare ulteriormente la circolazione di armi da fuoco.
Come nelle aule dei tribunali, l’esito è ancora tutt’altro che scontato.