Per il secondo giorno consecutivo Aden è stata il teatro degli scontri tra le truppe governative del presidente Hadi e i miliziani delle Forze meridionali di resistenza, braccio armato del Consiglio di transizione meridionale.

Nove i morti ieri, che si aggiungono ai 15 di domenica; oltre 140 feriti. La città costiera, strategico porto verso lo stretto di Bab al-Mandeb, è svuotata dalla presenza di civili: scuole, università, negozi e uffici sono chiusi, i voli aerei sospesi.

È l’effetto immediato della violenza scoppiata domenica tra i separatisti del sud dello Yemen, sostenuti con denaro, armi e addestramento dagli Emirati arabi, e il governo esiliato alleato dell’Arabia saudita. Una faida interna, naturale conseguenza delle tensioni che la guerra scatenata nel marzo 2015 da Riyadh, ha riportato a galla.

Secondo fonti locali i secessionisti hanno occupato alcuni uffici governativi e stretto d’assedio il palazzo presidenziale, sede di un’autorità assente (in auto-esilio, più o meno forzato, in territorio saudita dopo la fuga dalla capitale Sana’a nel 2014 a causa dell’avanzata Houthi).

E ieri hanno preso la base di Khormaksar, quartier generale del governo. Un golpe, denuncia il primo ministro Ahmed bin Dagher, mentre Hadi da 48 ore predica la calma e chiama alla tregua in una città fisicamente divisa in due, tra i quartieri controllati dai separatisti e quelli ancora sotto il governo.

Gli scontri sono esplosi domenica dopo che i militari pro-governativi hanno tentato di impedire una manifestazione di secessionisti indetta dal Consiglio di transizione, soggetto formato dai governatori di cinque province meridionali e due ministri e da nato lo scorso maggio su iniziativa dell’ex governatore di Aden, Aidarous al Zubeidi. All’epoca licenziato in tronco da Hadi, è ora leader di un movimento dalle radici antiche: se il meridione del paese ha dai tempi della colonizzazione inglese, durata 130 anni, compiuto percorsi amministrativi diversi dal resto del paese, è con l’unità del 1990 di Yemen del nord e Yemen del sud che il movimento si è plasmato e nell’ultimo decennio rafforzato.

L’operazione saudita ha fatto riesplodere le spinte secessioniste, agevolate dal vuoto di potere provocato da Riyadh, una realtà che ha spinto separatisti, tribù e clan a cercare alleanze di comodo non solo ad Abu Dhabi ma anche nelle province sud-orientali controllate de facto da Al Qaeda.

Al Zubeidi, una settimana fa, ha indetto lo stato di emergenza e lanciato il suo ultimatum al presidente, accusandolo di corruzione e incapacità di governare, «di una situazione pessima economica, sociale e di sicurezza, mai vissuta dal sud»: dimissioni entro il 28 gennaio. Non è successo, Hadi ha bandito sit-in pubblici e dispiegato le truppe. E domenica è arrivata la forzatura, ampiamente facilitata dagli Emirati, arci nemici di Hadi che ora aprono allo scontro diplomatico con gli alleati – nonché leader della coalizione sunnita anti-Houthi – dell’Arabia saudita.

Abu Dhabi non nasconde le mire sullo stretto di Bab al-Mandeb (via di transito del greggio diretto in Europa) e le insegue con truppe sul terreno, costruendo un governo parallelo a quello di Aden e foraggiando i secessionisti come i miliziani salafiti attivi a sud.