La Westminster Magistrates’ Court, il tribunale presso il quale si svolge l’iter processuale di Julian Assange, ha passato il faldone alla Ministra dell’Interno Priti Patel. Spetta a lei, adesso, ratificare o – a meno che non assuma ingenti quantità di ayahuasca, respingere – l’estradizione del giornalista e hacker australiano negli Stati uniti, dove sbavano per seppellirlo sotto 175 anni di galera per spionaggio. Patel ha tempo fino al 18 maggio per rendere nota la sua decisione. Dopodiché, i legali del fondatore di WikiLeaks avranno appena due settimane di tempo per ricorrere in appello. Se Patel approva l’estradizione, potranno tentare di impugnare la decisione mediante la revisione giudiziaria (modalità dell’ordinamento britannico in cui un giudice esamina la legittimità della decisione di un ente pubblico). Flebili, esili, fantasmatiche chance.

MARK SUMMERS, uno dei suoi avvocati, ha descritto la giornata di ieri come un «momento breve ma significativo del caso». Il team legale non può addurre nuove prove a difesa dell’imputato, ha dichiarato Summers, ma ha anche aggiunto che ci sono stati dei «nuovi sviluppi». Si cercherà di convincere Patel del rischio di maltrattamenti e abusi lesivi dell’equilibrio psichico di Assange una volta in pugno al sistema giudiziario e penale statunitense, lo stesso rischio paventato dalle perizie psichiatriche che avevano indotto il giudice di primo grado a stoppare l’estradizione, sentenza poi cassata dalla Corte Suprema lo scorso dicembre. Cassazione alla quale aveva fatto poi seguito, un mese fa, il diniego di ricorrere in appello.

QUELLA DI IERI era dunque poco più che una formalità. Assange ha seguito l’udienza in collegamento televisivo dalla prigione di massima sicurezza di Belmarsh (sorta di “Guntanamo Bay on Thames” a sud-est di Londra dove, tra il 2000 e il 2001, si reclusero indefinitamente e senza processo vari individui prima che la pratica fosse giudicata lesiva dei diritti umani), dove è prigioniero dal 2019 e dove il mese scorso ha sposato la compagna, l’avvocata Stella Moris. Com’è noto, aveva trascorso i sette anni precedenti asserragliato nella minuscola ambasciata dell’Ecuador nel quartiere di Kightsbridge, dietro i pornograficamente opulenti “grandi magazzini” Harrods. A voler usare un anglicismo fastidiosamente martellante, Assange è uomo invero “resiliente:” ma per uno che viene da una simile allucinante trafila di segregazioni – e soprattutto una volta caduto finalmente in mano alla vendicatività della land of the free – il rischio suicidio è perfettamente concreto.

GLI ACCUSATORI statunitensi affermano che Assange ha illegalmente aiutato l’analista d’intelligence dell’esercito Usa Chelsea Manning a sottrarre i famigerati cablogrammi e file diplomatici riservati, mettendo a rischio vite umane. Deve affrontare 17 accuse di spionaggio e una di uso improprio del computer. Ma quello che brucia di più al Pentagono è senz’altro la pubblicazione, dieci anni fa, di quelle centinaia di migliaia di documenti militari relativi alle invasioni di Afghanistan e Iraq, che includevano il filmato di un elicottero Apache che sparava a giornalisti Reuters (iracheni, non sia mai) ammazzando una dozzina di civili e ferendo due bambini nelle strade di Baghdad, nel 2007. A proposito di crimini di guerra.

Per credere che tutto questo strazio giudiziario non sia una pura vendetta politica serve un’overdose di disforia cognitiva. Il giudizio in primo grado poi “spontaneamente” autocorretto dal potere giudiziario britannico è un segnale accecante di quanto gli Stati uniti ammoniscano perfino il loro principale alleato/protettorato europeo a non esagerare con le loro proprie di sovranità. E dunque, lo stillicidio prosegue. Goccia dopo goccia, Julian Assange si avvicina alle fauci della giustizia di mercato.

PUÒ ANCHE DARSI che non gli diano 175 anni di carcere, può anche darsi che non lo spingano sull’orlo del suicidio: quello che conta è prenderselo, calpestando in punta di piedi – quando non coi boots on the ground – la giustizia altrui. È un altro calcio in faccia alla cosiddetta libertà d’informazione in un’epoca che non tollera giornalismo che non sia embedded, sferrato mentre si pontifica sulle propagande degli altri.