Venerdì sera in Turchia la mente di tutti è corsa al 13 maggio 2014: 301 minatori morti per un’esplosione a due chilometri di profondità in una miniera a Soma, nell’ovest turco.

Nei giorni successivi studenti, operai, dipendenti pubblici scesero in piazza in tutto il paese per protestare contro un massacro annunciato e la fine di privatizzazioni e subappalti: la polizia li prese a manganellate. Quattro anni dopo il processo per la strage si concluse con 14 condanne, quasi un quarto delle 52 richieste.

Venerdì è stata ancora un’esplosione a intrappolare 110 minatori a 350 metri di profondità in una miniera di carbone ad Amasra, sul Mar Nero. Almeno 41 i morti accertati, 11 i feriti.

Ieri sul luogo del disastro è arrivato il presidente Erdogan che ha promesso un’indagine per individuare anche «la più minima negligenza», mentre fonti governative parlano di una generica «combustione di gas».

C’è però chi tra le opposizioni solleva i primi dubbi: nella miniera, di proprietà dell’azienda statale Turkish Hard Coal Enterprises, i sistemi di sicurezza sarebbero stati carenti, ha denunciato il parlamentare Deniz Yavuzyilmaz. A dirlo sarebbe un rapporto del 2019 dello stesso governo, secondo cui la quantità di gas nello strato carbonifero sarebbe stato troppo elevato.

A seguito del tweet, la polizia ha fatto sapere di aver già arrestato 12 persone per diffusione di notizie provocatorie sui social (appena il giorno dopo l’approvazione di una nuova legge liberticida sull’informazione: carcere per chi diffonde fake news).

Secondo un rapporto di Thomson Reuters del settembre 2021, la Turchia è decima al mondo per riserve di vari minerali e punta a un’esportazione pari a 15 miliardi di dollari l’anno entro il 2023, tra società pubblica e private (sempre più numerose).