Dal Messico alla Patagonia, è stato un anno di grandi lotte contro il modello cosiddetto estrattivista, nel significato più ampio che ha assunto in America Latina, e da qui in tutto il Sud globale e oltre: l’invasione, nei territori latinoamericani, di miniere, industrie petrolifere, grandi dighe, gasdotti, aziende del legname, monocolture (di soia, palma, canna da zucchero, eucalipto), parchi eolici, progetti immobiliari, con tutta la relativa contaminazione di suoli, fiumi, laghi, aria.

Una nuova corsa all’oro, ma ancora più devastante, a cui le comunità contadine, i popoli indigeni, le organizzazioni di donne, i movimenti ambientalisti resistono come hanno sempre resistito, vivendo e costruendo alternative, che si tratti della lotta delle comunità maya, tzotzil, tzeltal e chol contro il Tren Maya nella penisola dello Yucatán, di quella della Conaie (Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador) contro i progetti minerari, dei mapuche contro le imprese forestali, dei popoli indigeni brasiliani contro l’agribusiness, giusto per citare qualcuno tra innumerevoli esempi.

Ma questo processo di appropriazione delle risorse presenti sui territori non si esaurisce affatto nella sfera economica. Per questo lo scrittore, giornalista e attivista uruguayano Raúl Zibechi, a cui ci siamo rivolti, parla di «società estrattivista»: una società in guerra contro i popoli, diventati ostacoli all’accumulazione/rapina dei beni comuni.

Lei ha scritto che l’estrattivismo, più che un modello economico, è un modello di società. In cosa consiste questa «società estrattivista»?
Esiste certamente un’economia estrattivista centrata sulla miniera a cielo aperto, sullo sfruttamento degli idrocarburi, sulle grandi opere di infrastruttura, sulle monocolture come quella della soia e sulla speculazione immobiliare urbana, tutte attività vincolate al capitale finanziario. Con il concetto di società estrattivista voglio far capire che esiste, oltre a un’economia, una società ordinata intorno al modello di accumulazione per rapina.
Pensiamo alla corruzione, diventata a tal punto sistemica da far apparire normale che ogni persona dotata di un piccolo potere possa usarlo a proprio favore depredando gli altri. O pensiamo alla violenza contro le donne, ai femminicidi legati al modello estrattivista. E c’è persino un estrattivismo accademico, che rende possibile studiare i poveri come oggetti, senza nemmeno consultarli.
La rapina dell’estrattivismo suppone che chi ha potere può fare quello che vuole, senza limiti, e quelli che pagano sono sempre los y las de abajo (quelli/e che stanno in basso), come diciamo in America Latina.

Ora si parla molto di litio. Ma conviene sfruttarlo, considerando i costi ambientali?
Il litio è diventato strategico. E, come è noto, in Bolivia, Cile e Argentina esistono enormi giacimenti. Il problema è che difficilmente potrebbero beneficiarne i popoli. Varrebbe la pena sfruttarlo perché, trattandosi di nazioni povere e dipendenti, non sarebbe una cosa da poco superare tale dipendenza attraverso una strategia di industrializzazione del litio in loco. Tuttavia gli stati hanno enormi difficoltà a farsi carico di tutto il processo, dalla prospezione fino all’industrializzazione: in parte per limiti propri, avendo perso la propria capacità industriale, ma in parte per gli ostacoli posti dalle imprese del settore, che sono quelle che dominano le tecnologie necessarie. Inoltre è chiaro che i costi ambientali sono molto alti.

L’estrattivismo è stato ed è ancora una delle principali cause del fallimento o almeno delle difficoltà dei governi progressisti. Quali sono le prospettive?
L’estrattivismo, è vero, è stato un limite assai chiaro del precedente ciclo progressista. E neppure oggi c’è alcuna intenzione di metterlo in discussione. In Argentina si punta sugli idrocarburi di Vaca Muerta, in Venezuela sull’Arco Minero dell’Orinoco, e così in tutti i paesi, che siano retti o meno da governi progressisti.
Se poi consideriamo l’industrializzazione – al di là dei suoi costi ambientali, pure presenti – come un’alternativa all’estrattivismo, perlomeno a scala nazionale, si tratta di un processo che richiede sicuramente tempi lunghi.

Come valuta le lotte anti-estrattiviste in corso in tutto il continente?
Sono fondamentali, perché sono quelle che possono frenare il modello di rapina. Non si sconfigge un modello con leggi approvate in parlamento: bisogna recuperare la storia del movimento operaio, la sua battaglia ostinata contro il potere padronale, officina per officina, operaio per operaio, fino a neutralizzare i meccanismi di controllo sulla classe lavoratrice. Ebbene, per sconfiggere l’estrattivismo bisogna affrontarlo sul terreno: in Argentina, in Perù, in Cile e in quasi tutti i paesi andini, si è riusciti a frenare una parte non trascurabile delle miniere, sia impedendone l’installazione, come a Conga, nel nord del Perù, sia rallentandola. A tal fine le comunità, e in particolare le donne, mettono in atto una resistenza corpo a corpo con la polizia e gli apparati militari.

Qual è la vera alternativa all’estrattivismo?
Il capitalismo oggi è estrattivista. Guardiamo per esempio alla brutale speculazione finanziaria che ne costituisce l’essenza. Il vecchio capitalismo è morto. La Fiat di Agnelli, con migliaia di operai che iniziavano a lavorare come apprendisti a 16 anni e continuavano fino alla pensione, non è più replicabile. E non tornerà più neppure lo stato sociale. Ora ci appare il vero volto del sistema, quello che già era stato mostrato dal colonialismo nel terzo mondo. La novità è che ora si è rivelato anche nel Nord. Alternative globali non ve ne sono. Né a livello di Stato-nazione né tantomeno a livello continentale. L’Europa è diventata il patio trasero, il cortile di casa, degli Stati Uniti, proprio come l’America Latina, con l’enorme differenza che qui siamo sempre stati consapevoli di esserlo, non ci siamo mai illusi di essere qualcosa di diverso. Le alternative reali – e non quelle che vengono dai libri di fiabe socialdemocratiche, marxiste o anarchiche -, sono quelle a scala locale, sul territorio, in spazi autocontrollati da piccoli gruppi orizzontali. Conosco, tra le altre, l’esperienza di Mondeggi a Firenze e la resistenza dei No Tav in Val di Susa, e credo sia questo l’unico cammino possibile. Anche se non si ottiene nulla in poco tempo.
Il sogno è che in futuro vi siano centinaia, migliaia, di Mondeggi e No Tav, come direbbe il Che. E che tale molteplicità di resistenze e creazioni – perché resistere e creare vanno sempre di pari passo – finisca per erodere il capitalismo estrattivista-finanziario fino a superarlo. Quando? Le transizioni anteriori, per esempio tra il feudalesimo e il capitalismo, sono durate tra i 5 e i 7 secoli. Siamo all’inizio. Chi ha fretta provi a creare un partito e si presenti alle elezioni: vedrà che per questo cammino non c’è via di uscita.