Che ne è dei nostri principi e delle facoltà di giudizio che riteniamo di possedere quando le astrazioni si fanno strada nella nostra esistenza e assumono concretezza? Come giudicare un presunto stupro quando l’accusa ricade sul proprio stesso figlio? Queste le domande che sembrano aver ispirato Yvan Attal, regista e sceneggiatore con Yaël Langmann di Les choses humaines (titolo internazionale The Accusation), film tratto dal romanzo omonimo di Karine Tui e presentato fuori concorso a Venezia. Il regista ha infatti affidato al figlio (Ben Attal) il ruolo di un giovane della buona borghesia parigina, eccellenti studi e prospettive di carriera brillanti, che un giorno viene posto in detenzione cautelare con l’accusa di violenza sessuale ai danni di una minorenne. La madre è interpretata da Charlotte Gainsbourg, a sua volta moglie del regista e madre dell’attore. Il suo ruolo è quello di un’intellettuale pubblica: in una scena, partecipa a un dibattito radiofonico difendendo posizioni antiviolenza riconducibili a quella corrente femminista che in Francia è detta «universalista» ed è contestata da orientamenti più attenti ai rapporti di dominio razziale e di classe.

IL PADRE del ragazzo, interpretato da Pierre Arditi, è un peso massimo della televisione in procinto di ricevere un prestigioso riconoscimento dalla presidenza della Repubblica. È un uomo che si è fatto da sé e che non disdegna rapporti con donne più giovani al limite dell’abuso di potere, con la scusa di quella séduction à la française che a tre mesi dal caso Weinstein furono in molte – tra cui Catherine Millet, Ingrid Caven e Catherine Deneuve – a difendere in una lettera aperta su «Le Monde». Membro dell’élite da sempre, il ragazzo accusato di stupro non è un cattivo a tutto tondo ma solo uno con la tenacia di chi è sicuro della propria esistenza, concentrato sul raggiungimento degli obiettivi, che si tratti di laurearsi o di vincere una scommessa goliardica. Nella società del gaming, dei winner e dei loser, lui sa da che parte vuole stare, ha le carte in regola per riuscirci e nessun dubbio. Una misura del suo privilegio lo dà la lunghezza del piano sequenza che, quando la polizia bussa alla sua porta, lo segue mentre attende che sia la domestica ad aprire e poi, in sua assenza, attraversa tutto l’appartamento fino all’uscio. La ragazza che lo denuncia, al contrario, è giovane, insicura, di famiglia modesta, con una madre ebrea ortodossa a cui è molto dura confessare l’onta subita. Eppure, ha il coraggio di denunciare, di affrontare la trafila penosa delle indagini e del processo, gli esami ginecologici, gli interrogatori che rinnovano il dolore, il victim blaming.

DIVISO in tre parti, il film esplora i punti di vista di lui, di lei e poi il processo, senza giungere a una sintesi rassicurante poiché quanto avvenuto tra i due giovani sfugge a un’analisi in termini di consenso e, anche se «cedere non è acconsentire», ci sono ingiustizie impermeabili alla legge. Tra dinamiche famigliari, giudiziarie e ruolo entropico dei social media, Les choses humaines è un solido film di scrittura sul potere come spazio di manovra che le élites sanno abitare con agio, perpetrando violenze che non sanno riconoscere come tali. Farlo le spingerebbe a mettere in discussione il proprio privilegio.