Elezioni a dicembre: probabilmente il 12, giovedì, decretato da 430 voti a 20. Le opposizioni avrebbero preferito il 9 per dare al governo meno tempo prima dello scioglimento delle camere (per legge 25 giorni prima della data delle elezioni) così da ridurre i rischi che Boris Johnson cambi idea e provi di nuovo a rinfilare sotto la porta il suo deal di uscita, finora sconfitto. Non è ancora detto naturalmente, figuriamoci: se passa ai Comuni la convocazione alle urne poi deve essere discussa dai Lords entro la settimana. Ma la chance aumenta.

IERI JOHNSON RIPROPONEVA per la quarta volta il voto sulle elezioni anticipate «per superare l’ostruzionismo di questa Camera ormai disfunzionale». Il primo passaggio in aula della leggina “semplice” – che aggira il sostegno dei due terzi del parlamento come stabilito dal Fixed Term Parliament Act, una legge varata nel 2011 da Cameron/Clegg che spogliava il governo dal potere di indire elezioni riequilibrandolo in direzione del Parlamento – e che richiede una semplice maggioranza, ha valicato il primo ostacolo, in un processo che da una settimana sarà compresso in poche ore. Di questi, due che proponevano di includere nel diritto di voto i cittadini dell’Ue ed estenderlo ai sedicenni – proposti ovviamente dall’opposizione – sono stati scartati dalla vice speaker (con l’ormai rockstar Bercow che si accinge a lasciare dopo oltre un decennio).

SAREBBERO LE PRIME elezioni a dicembre da un secolo, sì, anche se è un altro di quei record ormai inutili perché superati tre mesi dopo. Tra referendum ed elezioni, il Regno Unito ha votato una media di una volta l’anno dal 2014, a partire dal referendum scozzese. Tireranno il paese fuori dalla palude? Non è affatto detto. Nulla vieta – leggasi è assai probabile – che potrebbero risolversi in un altro parlamento “appeso”, hung, senza maggioranza, come ormai sembra essersi assestato il responso delle urne nel Paese. L’ex culla del maggioritario cui tutti gli ordo/neo/veteroliberali guardavano come al bengodi della governabilità, è ormai diventata una barella.

Comunque. Ieri Jeremy Corbyn ha varcato il Rubicone: il partito laburista ha finalmente dato il proprio nulla osta alle elezioni anticipate, presenza ectoplasmica che aleggiava su Westminster ormai da mesi, volute ormai da tutti ma da ciascuno a misura delle proprie esigenze. Si è accodato al cambiamento sostanziale di linea dei nazionalisti scozzesi e soprattutto dei liberaldemocratici, convintisi che le elezioni siano l’unico modo per stoppare Brexit, ora che l’Unione Europea ha finalmente concesso la proroga che dovrebbe estinguere, polverizzare, annientare anche la più remota possibilità di no deal. Ai primi serve come veicolo per le proprie mire nazional-secessioniste naturalmente; i secondi hanno per ora messo in pausa la lotta per un secondo referendum, lasciando in gramaglie la campagna del People’s Vote in barba alle oceaniche manifestazioni londinesi, simultaneamente tradotte in munizioni dell’arsenale sovranista.

«SIAMO PRONTI per le elezioni», ha detto Corbyn. «Ci andiamo con un messaggio forte, trasformativo della nostra società, per estinguere le disuguaglianze e l’ingiustizia e per combattere la devastante povertà sofferta da così tanti nel nostro popolo… metteremo in piedi la più grande campagna che questo partito abbia mai organizzato». Parole che oltre a suonare autenticamente socialiste per la prima volta dai tempi di Tony Blair Benn, indicano che sarà una campagna non avvitata istericamente sulla British Exit come quella dei Tories e dei liberaldemocratici.