Nell’anno più funesto e tragico, el Diez se ne va. All’improvviso, pochi giorni dopo il suo sessantesimo compleanno e un intervento chirurgico alla testa, è morto nella sua casa di Tigre, in Argentina, per arresto cardiocircolatorio Ancora quasi giovane eppure consumato da vizi d’ogni genere. Maradona, come Marley e Mandela, l’ultimo eroe degli ultimi, el pibe de oro per gli argentini, Diego Armando per i napoletani, Dieguito per tutto il continente latino, che ha fatto diventare anche il pallone un simbolo di liberazione.

Ribelle eccessivo, tamarro sguaiato e aizzapopolo in battaglia perenne contro le mafie del calcio, da Havelange a Grondona e Blatter, e dalla parte dei calciatori, amato alla follia dai suoi compagni di squadra, e dalla parte degli emarginati, dei miseri, di quelli che ce l’hanno fatta ma non dimenticano chi sono e da dove vengono. Il divino sgorbio (Brera dixit), il sinistro di Dio, l’uomo che ha regalato felicità e riscatto a un ‘umanità disperata e dolente ma anche a tutti gli amanti del calcio, quello degli anni ’80, l’ultimo a misura d’uomo prima dell’esasperazione tattica, dei collettivi instancabili, dei calciatori polli di batteria, dei match analyst.

EROE SPORTIVO, personaggio profondamente autentico e orgoglioso della sua identità argentina, passato ripetutamente dagli altari alla polvere (in senso letterale e figurato), Diego Armando Maradona è stato probabilmente il calciatore più famoso del mondo e, anche dopo aver abbandonato i campi di gioco, ha continuato a far parlare di sé per le sue prese di posizione, politiche (ferocemente antiUsa e antiFmi) e sociali, decisamente provocatorie. In un’intervista tv di venti anni fa, Dieguito bacia ripetutamente il tatuaggio di Guevara : «Questo è il mio eroe nazionale, non Belgrano, non San Martins, il Che visto quasi come un terrorista nel suo, nel mio paese dove i generali Galtieri, Videla, Menendez sono agli arresti domiciliari nelle loro ville con l’aria condizionata. Loro i responsabili delle sparizioni di tanti bambini e madri, torturate e uccise.

Del sangue di tantissima gente. Non posso accettare l’indulto, gliel’ho detto al presidente e amico Menem, un domani potrebbe toccare a me, a noi». Il tatuaggio del dottor Guevara ce l’aveva sulla spalla destra, quello di Fidel Castro sulla tibia della gamba sinistra. All’isola di Cuba più volte era andato a ritemprarsi, novello Ulisse, fiaccato da droghe, clan di parassiti e vita sregolata.

IL RAGAZZINO, con la massa di capelli neri ricci, del barrio di Villa Fiorito – la casa dove pioveva dentro con gli otto fratelli e sorelle a dormire in una stanzetta, i genitori in difficoltà economiche insormontabili – dotato di un talento assoluto per la pelota, che sognava un giorno di vestire la camiseta col diez, arrivare in nazionale e salir campeon. Coi Cebollitas, la squadra giovanile dell’Argentinos Juniors, girò i campi polverosi della zona di Buenos Aires, come un predestinato venuto in terra a mostrare miracoli con un’arancia, una pallina di carta o una sfera di cuoio.

VINSERO 136 partite di seguito, e lui affinò il suo repertorio di finte, tunnel, dribbling, tiri assassini. E naturalmente passò al Boca Juniors, la squadra proletaria per cui tifava il padre con fiera rivalità contro i borghesi del River Plate. Arrivò sul palcoscenico più importante dell’universo pedatorio, l’Europa, vestendo la maglia del Barcellona, in stagioni travagliate concluse dall’incidente terribile, il fallo di Goycochea che gli spezza tibia e perone, la lunga rieducazione in piscina e palestra e la megarissa nel match di ritorno contro i bianconeri dell’Athetic Bilbao.

A Napoli, la città che l’ha adottato in un pomeriggio d’estate del 1984 – il Fourth of July quando palleggiò davanti a settantamila spettatori in uno stadio pieno di cori e applausi- e l’ha coccolato per quasi sette anni fino a quell’amaro pesce d’aprile `91, la sua fuga occultata e di corsa lasciando Ferrari, Porsche e Toyota nel garage, automobili che sarebbero poi andate all’asta per pagare debiti e tasse.

La tattica della squadra dell’asinello era così sintetizzabile – quando sei in difficoltà o non sai cosa fare- «Dallo a Diego», il pallone, ci pensa lui. Sotto il Vesuvio Diego si è realizzato pienamente, vincendo due scudetti, circondato dall’amore assoluto della città (che l’abbracciava anche con le sue svariate spire pericolose, dalle ragazze – avrà l’unico figlio maschio, Dieguito Jr. da Cristiana Sinagra, che dovrà avviare una lunga battaglia legale per vederlo riconosciuto – alle amicizie sbagliate, la sua foto nella vasca da bagno della famiglia Giuliano, boss della camorra di Forcella, farà il giro del mondo).

NELLA SUA AUTOBIOGRAFIA, c’è Diego che per rilassarsi salta gli allenamenti e va a giocare al Parco Virgiliano con gli amici, o partecipa a sorpresa alle partite di beneficenza per i ragazzini malati nell’hinterland partenopeo e persino Diego che sniffa cocaina dal… derrière di un femminiello. Anche il dialetto napoletano ha dovuto trasformarsi davanti all’uomo che generalmente realizzava ’nu die `e gol, reti da arricrearsi, diegol, diego, die-go, die-go, un bisillabo ripetuto che t’inseguiva per le tribune e i vicoli. E le agenzie di stampa raccontano di migliaia di parrucche coi suoi riccioli neri vendute nel 1987, l’anno del primo scudetto azzurro. Allora aveva già vinto il Mondiale ’86 in Messico, eliminando l’Inghilterra con due gol. Il primo , quello della Mano de Dios. «Saltai come una rana, e fu la cosa che Shilton non si aspettava.

Lui pensava, almeno credo, che gli sarei andato addosso. Arrivai più in alto di Shilton perché fisicamente ero come una bestia. Il pallone era partito fortissimo. Lo colpii con il pugno ma schizzò via come se l’avessi colpito con il sinistro invece che con la testa. Arrivò in fondo alla rete senza problemi. Fu un gesto fulmineo, tac, e non avrebbero mai potuto vederlo…Abboccarono tutti, persino Shilton che non sapeva più neanche dove si trovava».

Ne aveva segnati tanti così a Villa Fiorito e stavolta la mano di Dio, l’intervento sovrannaturale, annebbiò arbitro e giocatori. Ma fu l’altra rete, quello che viene spesso definito come il gol più bello di sempre, quello dei dodici tocchi consecutivi, quando Maradona conquista la palla a centrocampo e saltando avversari come birilli in uno slalom travolgente, finisce col depositare la palla in rete.

Da allora in poi San Gennarmando, ingenuo miliardario attorniato da pescecani, edicola votiva dei Quartieri Spagnoli e santino dei vicoli di Spaccanapoli, inguaribile guascone e angelo delle periferie del terzo mondo, concluderà la sua mirabolante epopea italiana, piena di deiezioni corporali (l’urina del test antidoping che lo squalificherà per anni) e tackle troppo affondati, maniere forti per arginare la fantasia, l’inventiva, il genio assoluto nel corpo appesantito.

Arrogante fino a infastidire il mondo, criticare il Papa e l’imperialismo, questo nanerottolo capriccioso a suo modo innocente e appassionato, ha pagato tutto in prima persona , anche la sua terribile dipendenza dalla cocaina, da leggendaria divinità del pallone, «il maestro ispiratore di quella gente che sogna ancora», come recita la targa (in inglese) donatagli dagli studenti dell’università di Oxford, dopo una conferenza nel 1995.

Adios Pelusita, grazie per tutto, per il gol su punizione a Tacconi e per quello da terra contro il Pescara, per i 115 gol azzurri su oltre 300 in carriera. Non dimenticheremo nulla.