Come risalire la corrente del riflusso riprendendo unitariamente l’iniziativa? In che modo «rafforzare la connessione fra movimenti e attori dell’alternativa a livello continentale e globale?» È a questa domanda che tenteranno di rispondere gli attivisti e le attiviste di vecchia e nuova generazione che daranno vita il 20 luglio a Piazza Matteotti all’Assemblea internazionale a venti anni dal G8 di Genova. Tra loro anche Edmilson Rodrigues, che a Genova 2001 era presente in qualità di sindaco di Belém, nell’Amazzonia brasiliana, noto per il suo impegno a favore di un’attiva partecipazione della cittadinanza all’elaborazione della politica municipale, attraverso per esempio l’esperienza del bilancio partecipativo, e per la realizzazione di importanti progetti sociali e culturali. Vent’anni dopo, Rodrigues fa ritorno a Genova di nuovo come sindaco di Belém, non più con il Partito dei lavoratori ma con il Psol (Partito Socialismo e libertà), avendo sconfitto, al secondo turno delle elezioni comunali del 2020, il bolsonarista Everaldo Eguchi.

A vent’anni dal G8 di Genova, a cui anche lei ha preso parte, molti si interrogano sull’eredità lasciata da quella fondamentale esperienza, su cosa è rimasto, su cosa è andato perduto. Quella lotta non è diventata oggi ancora più attuale?
Vent’anni fa, a Genova, eravamo migliaia di militanti, venuti da diverse parti del mondo per protestare contro la governance capitalista del pianeta, simboleggiata dal G8. Malgrado la tragedia che ha significato la morte di un nostro compagno, Carlo Giuliani, si è trattato di una protesta magnifica nel quadro di un movimento di portata mondiale che ha messo in discussione la logica, il modus operandi e l’orizzonte del capitalismo. Da allora sono passati due decenni e il modello capitalista si è confermato come un sistema attraversato da profonde crisi: economica, politica, ambientale e culturale. La sua abolizione diventa sempre di più un imperativo categorico affinché l’umanità si lasci alle spalle le sue sofferenze ed entri in una fase nuova della sua storia.

Quali sono i principali fattori che hanno impedito la nascita di quell’altro mondo che si riteneva possibile? Perché vent’anni di resistenza al capitale globale hanno prodotto così pochi risultati?
Le crisi non conducono alla paralisi del capitalismo. La rivoluzione tecnologica ha portato con sé una brutale ristrutturazione del lavoro, tale da indebolire i sindacati e l’organizzazione dei lavoratori. L’enorme diffusione del lavoro individuale, la disseminazione di una ideologia individualista e l’apparizione di alternative di governance di estrema destra quando non esplicitamente fasciste hanno creato un quadro piuttosto avverso alle nostre prospettive e alle nostre speranze. Ma a tale quadro hanno contribuito anche le debolezze dello stesso movimento come pure i limiti dei governi progressisti, soprattutto in America latina, che si sono rivelati incapaci di superare la base estrattivista del modello produttivo e hanno persino creato ostacoli, in vari momenti, all’organizzazione indipendente del popolo. Si tratta di difficoltà inerenti al processo che abbiamo intrapreso. Dopotutto non abbiamo mai pensato che sarebbe stato facile. Ma non abbiamo alcuna intenzione di arrenderci.

L’America latina è stata a lungo considerata dai movimenti popolari qui in Europa il laboratorio per eccellenza di sperimentazioni antisistemiche. Perché quella spinta verso un altro modello di civiltà che tante speranze aveva risvegliato ha rallentato così tanto da permettere l’avvento di un governo come quello di Bolsonaro? Cosa fare per rilanciarla?
In Brasile, dove un movimento di estrema destra si è appropriato del potere presidenziale, la più ampia unità delle forze popolari risulta di vitale importanza per sconfiggere un governo che, a causa della sua politica negazionista nella lotta al Covid 19, si è reso responsabile di oltre 500mila morti. Ma in questa alleanza è necessario coinvolgere non solo i partiti progressisti e di sinistra, ma anche tutte le forze sociali che stanno sfidando con coraggio questo governo genocida. Mi riferisco alle organizzazioni dei popoli indigeni, dei quilombolas, del movimento nero, degli ambientalisti, delle vittime della violenza della polizia, di tutte le persone, insomma, che subiscono gli attacchi fascisti e che, in un modo o nell’altro, hanno cercato di reagire. Ritengo che la costruzione di questa base unitaria, non solo in Brasile ma in tutto il subcontinente latinoamericano, sia essenziale non solo per sconfiggere il fascismo ma anche per tornare ad alimentare l’altermondialismo in tutta l’America latina.

In che modo si può rafforzare questa convergenza fra le forze sociali antisistemiche in un momento drammatico come l’attuale? E come può contribuire a questo processo la difesa, più che mai urgente, dell’Amazzonia?
Stiamo lavorando alla creazione delle migliori condizioni possibili perché questa unità venga costruita. Nella seconda metà del luglio del 2022, Belém ospiterà la decima edizione del Forum sociale Panamazzonico, che si presenta come una preziosa occasione di incontro e di convergenza non soltanto tra i movimenti sociali dei nove paesi della Pan-Amazzonia, ma anche tra tutte e tutti coloro che intendono la difesa dell’Amazzonia e dei popoli che la abitano un punto decisivo del programma di salvezza dell’umanità. E nell’ottobre di quest’anno realizzeremo nella nostra città l’“Incontro di saperi – Amazzonia e cambiamenti climatici” in cui sciamani e detentori delle conoscenze tradizionali si incontreranno con esponenti del mondo scientifico per discutere attorno alle diverse percezioni della crisi climatica e ai modi di contrastarla. Questo incontro produrrà una lettera che sarà diffusa in occasione della Cop-26 di Glasgow con l’obiettivo di dare visibilità alla posizione dei popoli amazzonici sulla questione. In tal modo, il nostro governo municipale e la città di Belém contribuiranno al rilancio e al rafforzamento di quel movimento altermondialista diretto a costruire un mondo in cui ci sia spazio per tutti i mondi.