La reazione è arrivata a stretto giro, attesa nei modi e nei tempi: l’asse Washington-Riyadh non si è fatta sfuggire l’occasione di minacciare – ri-minacciare – l’Iran di rappresaglia dopo che almeno dieci droni, ieri, hanno centrato stabilimenti petroliferi dell’Aramco.

Non una compagnia qualsiasi, ma la mega-agenzia petrolifera di Stato, in piena fase di semi-privatizzazione, dell’Arabia saudita, 65mila dipendenti. Né due stabilimenti qualsiasi: il primo, Abqaib, è il più grande impianto per il trattamento di petrolio al mondo, dove l’Aramco raffina il 7% del greggio mondiale prima di imbarcarlo per l’esportazione; e il secondo, Khurais, è uno dei campi di estrazione di greggio della petromonarchia, l’1% delle riserve mondiali.

Tanto importanti che a poche ore dall’attacco il ministero dell’Energia di Riyadh ha ammesso: impianti fermi e produzione petrolifera nazionale dimezzata, 5,7 milioni di petrolio di barili al giorno letteralmente in fumo, pari al 5% della produzione globale. Il fuoco ha investito i due impianti, per essere domato qualche ora dopo.

Secondo il ministero, entro due giorni la produzione riprenderà a pieno regime, dichiarazioni che lasciano dubbiosi diversi esperti che immaginano tempi più lunghi. L’International Energy Agency rassicura («Per adesso i mercati sono ben forniti»), più prudente il Rapidan Energy Group, secondo cui il prezzo del petrolio si impennerà domani, alla riapertura dei mercati, soprattutto se l’interruzione durerà più del previsto.

La responsabilità è Houthi e loro la rivendicano: a lanciare i dieci droni contro i due impianti sono stati i ribelli sciiti yemeniti, sotto attacco della coalizione a guida saudita dal marzo 2015 e comunque capaci di opporre una significativa resistenza. La guerra in Yemen continua, gli Houthi controllano ancora metà del paese e nel corso dell’ultimo anno sono più volte riusciti a lanciare missili e droni oltre il confine nord, in pieno territorio saudita.

Ma così lontani, 770 km in linea d’aria, non erano mai arrivati, né erano stati mai così minacciosi per l’economia saudita, tanto che qualche osservatore ha provato a dare una spiegazione diversa: l’attacco potrebbe essere partito da nord, ovvero dall’Iran o dall’Iraq, con missili da crociera. Secondo gli Stati uniti i due impianti sarebbero infatti stati colpiti da nord-ovest e non da sud. Se fosse stato così i radar della difesa aerea saudita avrebbero però dovuto intercettarli.

Sono comunque immediate le reazioni degli alleati, che da anni considerano l’Iran il burattinaio dietro la resistenza Houthi. Mohammed bin Salman, principe ereditario saudita ma di fatto già reggente, ha parlato con il presidente Usa Donald Trump al telefono ieri: «Il regno ha intenzione ed è in grado di rispondere a questa aggressione terrorista». Trump, secondo l’ambasciata saudita a Washington, ha ribattuto promettendo di cooperare per proteggere l’alleato.

Interviene anche Mike Pompeo, segretario di Stato, che ha direttamente accusato Teheran di aver compiuto gli attacchi contro gli impianti sauditi: «Teheran è dietro circa cento attacchi contro l’Arabia saudita mentre Rouhani e Zarif (presidente e ministro degli esteri iraniani, ndr) fingono di ricorrere alla diplomazia. Mentre fa appelli alla de-escalation, l’Iran ha lanciato un attacco senza precedenti alle riserve mondiali di energia». Ovviamente senza presentare alcuna prova.

Ma di prove non hanno bisogno, come non c’è bisogno di spiegare il contesto in cui tale attacco avviene. Se la capacità bellica degli Houthi è talmente elevata da rendere abbastanza palese un sostegno militare iraniano (secondo l’Onu, i droni Houthi Qatef-1 sono pressoché identici a quelli iraniani Ababil-T), dalla narrazione degli eventi sparisce la guerra yemenita, ormai al quarto anno, con il suo bagaglio di crisi umanitaria, morte e distruzione.

A rispondere a Washington è l’Iran con il portavoce del ministero degli esteri, Abbas Mousavi: «Tali accuse, cieche e senza fondamento, sono incomprensibili e senza senso», ha detto attribuendo agli Stati uniti una politica di massima pressione contro l’Iran.

Una politica ripresa con Trump che appena un anno fa ha ritirato gli Usa dall’accordo sul nucleare civile del 2015 e ha reintrodotto brutali sanzioni contro la Repubblica islamica. E che prosegue da mesi, con l’ultima escalation attribuibile a Israele che a fine agosto, in poche ore, ha bombardato Gaza, Siria, Libano e Iraq, prendendo di mira milizie sciite e gruppi filo-iraniani.