«La sua candidatura assomigliava in tutto e per tutto ai suoi capelli: era come un’esplosione di gas o un soufflé al mango, o come un qualsiasi fenomeno altamente transitorio che coinvolge un sacco di aria calda e di volume artificiale». Scrive così Ben Fountain in apertura di America brucia ancora (traduzione di Assunta Martinese, minimum fax, pp. 544, euro 19).
Eppure, con le presidenziali in atto, leggere questi dispacci da quel lontano 2016 in cui quella di Trump sembrava più la parabola di un cialtrone dei reality che non un fenomeno politico da prendere sul serio è un’esperienza davvero impressionante, con tutto che il finale ci è stato già spoilerato.

Dopo quattordici stagioni televisive e avendo studiato alla scuola di Tony Soprano e J.R. Ewing, il miliardario newyorkese viene recepito come un campione di autenticità, uno che dice le cose come stanno al contrario dei saputelli spocchiosi democratici. Nel volgere di poco diventa il paladino di chi si è sentito sminuito e ha borbottato risentimento sotto l’amministrazione Obama. Di più, arriva a rappresentare quasi una fonte battesimale capace di restituire purezza: «questa potrebbe essere la più potente medicina in mano alla politica, il leader che riconsegna l’uomo al suo stato naturale.
Essere riconosciuti per ciò che si è, legittimati e benedetti dall’alto: potremmo considerarla quasi un’esperienza spirituale. Un gravoso fardello si è sollevato dalle nostre spalle. Basta dubbi, basta disgusto, solo la certezza che sei nel giusto e hai Dio dalla tua parte».

E HILLARY CLINTON? È la sfidante designata, la scelta prudente dei pragmatici a dispetto delle indagini sulle mail e le conferenze strapagate da Goldman Sachs. Oggi relegata sullo sfondo, ai tempi nei suoi comizi parlava anche l’ormai rassicurante marito Bill, il sorriso reminiscente del vecchio potere seduttivo addomesticato nella camicia di flanella e giacca marrone a spina di pesce; impossibile guardarlo «senza che si aprisse uno scorcio sulla nostra mortalità». «La matrona del country club» con l’invettiva pronta contro Wall Street era stata allestita negli anni come «una specie di corazzata, l’ammiraglia della flotta, con le chiglie rinforzate e l’artiglieria pesante» capace di resistere agli urti e alle offese da destra e da manca. In questa corsa però non mancano i comprimari. C’è Ted Cruz l’ortodosso con la mano sul cuore detestato dai colleghi senatori e pronto al peggior gioco di parole pur di trovare uno slogan che sia uno.

Se Cruz è il fondamentalista che non si capisce bene se voglia prevenire o accelerare l’Armageddon, l’interpretazione dell’outsider spetta di diritto a Bernie Sanders, «che fa sembrare tutto ciò che dice una ramanzina». Vestito come un professore emerito e con gli sparuti capelli di «chi si è appena alzato dal letto», Sanders è sorprendentemente cool: ammicca sull’erba, dice sfigato ironicamente, si contorna di cantanti e artisti, ma quando parte la musica sul palco balla sul posto come un nonno a disagio. La più grande scommessa dai tempi del New Deal dicono, ma la sua proposta rischia di tramutarsi in una débâcle paragonabile a quelle di McGovern nel 1972 e Mondale nel 1984.

Si chiama Ben Fountain l’autore di questi fulminanti ritratti, corroborati da una cronistoria impeccabile e da affondi nel passato recente e non degli Stati Uniti. È un ex avvocato texano che ha esordito alla soglia dei cinquant’anni con Fugaci incontri con Che Guevara (Spartaco, 2011), racconti dai quattro angoli del mondo alla ricerca di nuove forme di resistenza al capitale. Ha poi proseguito con È il tuo giorno, Billy Lynn! (minimum fax, 2013), il miglior romanzo sulla guerra in Iraq e i suoi tetri strascichi, trasposto più che degnamente al cinema da Ang Lee con Billy Lynn – Un giorno da eroe.
Se come diceva Henry Adams «la politica è l’organizzazione sistematica dell’odio», allora Trump è stato il più abile a incistare una visione apertamente razzista sulla rabbia contro il sistema, una miscela pressoché infallibile in America. Ultimo inconsulto esito di una lunghissima Southern Strategy del partito repubblicano, l’elezione di Trump segna «il trionfo delle politiche dell’identità – l’identità bianca – sull’interesse economico».

MILIONI DI AMERICANI non necessariamente benestanti hanno preferito il colore della propria pelle rispetto a politiche economiche schiettamente penalizzanti. Un elettorato rabbioso e disilluso per la stagnazione, le delocalizzazioni e l’impunità dell’un percento è stato reclutato al «ripiegamento in massa nella fantasia» degli Stati Uniti. È la vittoria della narrativa sui fatti, ancora una volta. America brucia ancora è uno scottante reportage da una nazione in fiamme, oggi terra bruciata le cui braci vengono continuamente riattizzate.