Per l’opposizione venezuelana si tratta, probabilmente, del punto più basso toccato nella sua lotta contro il chavismo. L’insuccesso di quella che Juan Guaidó aveva annunciato come la «fase definitiva dell’Operazione libertà» è stato talmente evidente che persino l’autoproclamato presidente ad interim ha dovuto mettere per una volta da parte i toni trionfalistici e riconoscere il clamoroso flop.

LO HA FATTO durante un’intervista concessa al Washington Post, ammettendo di aver sbagliato ad aspettarsi un’ondata di diserzioni all’interno dell’esercito tale da costringere Maduro alle dimissioni: «Forse – ha detto – necessitiamo di un maggior numero di soldati o, forse, abbiamo bisogno di altre figure di spicco del regime che siano disposte ad appoggiare la Costituzione».

Ma, se Guaidó ha fallito, è soprattutto perché il popolo venezuelano – anche quello che ha preso le distanze da Maduro – si rifiuta chiaramente di seguirlo. L’appello rivolto sabato ai suoi sostenitori a concentrarsi dinanzi alle principali unità militari in tutto il paese per convincere i soldati a disertare è infatti caduto pressoché nel vuoto, come stavolta ha riconosciuto persino la grande stampa internazionale: solo poche decine di persone si sono presentante nei punti previsti, senza peraltro andare incontro ad alcuna misura repressiva. E alla Casona, la residenza ufficiale della presidenza del Venezuela (dove però non abita Maduro), i funzionari della Guardia nazionale bolivariana hanno ricevuto l’appello dalle mani dell’opposizione e gli hanno dato fuoco.

SENZA POPOLO e senza esercito, non sapendo più che pesci prendere, il leader dell’estrema destra torna allora a confidare nuovamente in un intervento militare degli Stati uniti, esattamente come aveva fatto all’indomani dell’altro suo grande fallimento, quello del 23 febbraio relativo al mancato ingresso degli aiuti umanitari.

INTERROGATO infatti dal Washington Post su una eventuale offerta di intervento militare in Venezuela da parte di John Bolton, il consigliere per la Sicurezza della Casa bianca, Guaidó ha spiegato quale sarebbe la sua risposta: «Caro amico, grazie per tutto l’aiuto che hai offerto per la nostra causa. Grazie per indicarci tale opzione, la valuteremo e probabilmente la esamineremo in Parlamento. E, se necessario, la approveremo». E ha aggiunto: «Stiamo considerando tutte le opzioni. È bene sapere che anche alleati importanti come gli Stati uniti le stiano valutando. Questo ci rassicura sul fatto che, nel caso avessimo bisogno di cooperazione, sapremo dove trovarla».

IL PROBLEMA, PER GUAIDÓ, è che l’intervento militare resta, tra tutte le vie, quella sicuramente meno percorribile, e per una grande quantità di ragioni, evidenziate più volte e da più parti: la potenza numerica della forza armata bolivariana (230mila militari) e gli avanzati armamenti di cui dispone, le alleanze su cui può contare il governo Maduro (a cominciare da quella, decisiva, della Russia), le resistenze internazionali a cui andrebbe incontro il ricorso all’uso della forza, le divisioni interne alla stessa amministrazione Trump, la netta opposizione a ogni ipotesi di guerra da parte della popolazione venezuelana.

E, IN ASSENZA DI UN INTERVENTO militare, Maduro al potere rischia di restarci ancora a lungo, non essendo la via dello strangolamento economico destinata a rovesciarlo in tempi brevi. Uno scenario che, per Guaidó, screditato tra le stesse fila dell’opposizione per la mancanza di risultati concreti e sempre più preso di mira dalle reti sociali, significherebbe una condanna alla totale irrilevanza politica.