No e No. Con un cocente, doppio diniego, gli irlandesi hanno respinto il referendum modernizzatore proposto dal governo moderato di Leo Varadkar. Alle sette e trenta di ieri sera il conteggio non era ultimato, seppure il risultato già indiscutibile: 24 dei 39 collegi elettorali della Repubblica davano per il “sì” il 32,7% rispetto al 65,9% per il “no”. Con un’affluenza medio-bassa – il 44,4% contro il semi-plebiscitario 64,1% del cruciale referendum sull’aborto del 2018 – la trionfale secolarizzazione dell’Irlanda ha subito la sua prima, evidente battuta d’arresto.

IL RISULTATO SIGNIFICA che la Costituzione, il fondamento legale dello Stato irlandese, continuerà a dichiarare il matrimonio un requisito per qualsiasi famiglia, mentre il valore delle donne per la società deriva dall’adempimento dei «doveri di casa». Ed è subito – di nuovo – 1937, l’anno della sua ratifica.

«È chiaro che in questa fase i referendum sull’emendamento della famiglia e quello dell’assistenza familiare sono stati sconfitti, in modo completo e con un’affluenza rispettabile», ha commentato, a spoglio ancora incompleto, lo stesso Varadkar riferendosi ai due emendamenti proposti alla Carta costituzionale: quello sulla «famiglia» e quello sulle «cure familiari».

Entrambi miravano ad aggiornare pesanti aspetti veterocattolici che aggiogavano il testo alla prima metà del secolo scorso. «Come capo del governo e a nome del governo, ci assumiamo la responsabilità del risultato». «Era nostra responsabilità convincere la maggioranza delle persone a votare Sì e chiaramente non ci siamo riusciti», ha aggiunto.

UNA SCONFITTA TRASVERSALE, che vede accomunarsi i destini di governo, una coalizione fra Fine Gael, Fianna Fáil e i Verdi, con quello del Sinn Féin, che aveva gettato il proprio peso di maggioranza in pectore (sono in testa ai sondaggi per una storica vittoria alla prossime politiche), nella sfortunata – tiepida, confusa ed equivoca, secondo i molti suoi detrattori a destra e a sinistra – campagna referendaria.

Mary Lou Mcdonald, la leader del Sinn Féin e probabile futura taoiseach (premier), ha addossato la colpa della sconfitta al governo, incapace, a suo dire, di «convincere» l’elettorato. Il suo partito si è già impegnato a riproporre i quesiti referendari nella prossima legislatura.

MA NON SI TRATTA di una vittoria necessariamente soltanto reazionaria, quanto di un vulnus in parte autoinflitto. Il primo, l’articolo 41.1 della Costituzione, intendeva il riconoscimento statale della famiglia come fondata non solo sul matrimonio ma anche su «altre relazioni durature» e di «convivenza fra coppie o con i figli». Proprio queste due formule indiscutibilmente aperte e “fluide” hanno provocato una levata di scudi nel mondo giuridico, considerate foriere di potenziale confusione (questioni di alimenti, eredità, ecc.), nel diritto di famiglia irlandese.

Il secondo, detto delle «cure familiari», proponeva di eliminare l’articolo 41.2, che riconosce il contributo della vita di una donna all’interno della casa al bene comune e prevede che lo Stato «si sforzi» di garantire che le madri non siano obbligate per necessità economica a lavorare fuori casa. Qui è stata certa sinistra, anche femminista, a insorgere. L’emendamento proposto, il 42B, rimuove la donna “genericamente” intesa come pilastro dell’unità economica familiare sostituendola con un linguaggio neutro dal punto di vista di genere, ma introduce anche un disimpegno sociale – quel volutamente vago «si sforzi» – da parte dello stato cui l’articolo originale, pur sgocciolante sessismo, non si sottraeva. Un’esemplare flagranza di neoliberalismo dove il 1937 ha battuto il 2024.

PARTE DELLA SCONFITTA, secondo i detrattori degli emendamenti così redatti, sarebbe imputabile proprio alla riluttanza da parte del governo ad accogliere il suggerimento della speciale assemblea cittadina e della commissione parlamentare preposte che, nel 2021 e 2022, avevano entrambe raccomandato l’adozione di un linguaggio che vincolasse lo Stato al proprio mandato di salvaguardia delle cure e dell’assistenza familiari.