Follia e potere sono un tema non esattamente nuovo nella storia mondiale, basta pensare a Caligola, a Nerone e a re Giorgio III d’Inghilterra e Ludwig II di Baviera, passando per un intero repertorio di personaggi delle tragedie di William Shakespeare.

A Washington molti si chiedono quanto durerà il processo di autodistruzione della presidenza Trump, a cui ogni settimana l’improbabile inquilino della Casa Bianca fa compiere un nuovo passo avanti.

Fine luglio non è un buon momento per i presidenti americani: ieri, infatti, era il 43° anniversario del voto della Camera sulla prima delle tre mozioni di impeachment contro Richard Nixon: il 28 e il 29 luglio 1974 sarebbero seguite altre due. Come si sa, il processo per il cosiddetto scandalo Watergate non si tenne perché Nixon scelse di dimettersi, cosa che Donald Trump assolutamente non ha intenzione di fare, benché le accuse a suo carico siano ben più pesanti di quelle contro il suo predecessore.

Se a Nixon veniva rimproverato di aver protetto i suoi collaboratori che avevano messo in atto azioni di spionaggio contro gli avversari politici (Watergate era il condominio dove il partito democratico aveva i suoi uffici), Trump potrebbe essere accusato non solo di intralcio alla giustizia ma addirittura di essere al servizio di una potenza straniera, la Russia, e di avere cospirato con Mosca per vincere le elezioni del 2016.

Naturalmente queste accusa devono essere provate, ma il consenso generale a Washington è che se c’è qualcosa da scoprire il procuratore speciale Robert Mueller, un ex direttore dell’Fbi, lo scoprirà. Questo è lo scenario su cui si svolge il bizzarro balletto di questi giorni a Washington, dove Trump ha pubblicamente attaccato e umiliato il suo Procuratore generale Jeff Sessions, spingendolo a dimettersi. Il vero obiettivo non è tanto Sessions, che fu il primo senatore repubblicano a sostenere Trump quando la sua candidatura sembrava ancora la stravaganza di un milionario, bensì lo stesso Mueller, che può essere destituito solo da Procuratore generale o dal suo vice (nel sistema giudiziario americano i procuratori sono alle dipendenze del governo, non indipendenti come i giudici).

Trump vuole a tutti i costi mettere fine all’indagine sui suoi rapporti con la Russia, che è diventata una vera ossessione, probabilmente non perché ci sia un qualche documento segretissimo con le prove del suo alto tradimento, quanto perché un’indagine a tappeto sulla sua famiglia e i suoi collaboratori metterebbe alla luce decine di conflitti di interesse, comportamenti dubbi e violazioni della legge che costituiscono l’essenza stessa della sua carriera. Il suo principio fondamentale negli affari è stato che le regole valgono per gli altri, non per lui. Da businessman gli è sempre andata bene, da presidente spera di usare gli stessi metodi intimidatori che fin qui hanno funzionato.
Con Jeff Sessions, tuttavia, Trump ha però di fronte due ostacoli: non solo i senatori repubblicani che lo sostengono compattamente ma anche la base dei suoi elettori, a cui il pugno di ferro mostrato in questi mesi da Sessions contro gli immigrati, le sue proposte di pene più dure e la sua retorica “Legge e Ordine” piacciono molto. Non a caso, uno dei principali sostenitori del procuratore generale è l’uomo che meglio di tutti rappresenta il legame di Trump con la parte più xenofoba del suo elettorato: il consigliere Stephen Bannon.

Licenziare Sessions è poi difficile anche perché l’insulto al senato renderebbe impossibile ottenere l’approvazione della camera alta per un successore: il presidente può nominare i suoi ministri ma per entrare in carica questi devono avere l’approvazione del senato.
Esiste una scappatoia: nominare qualcuno quando il senato non è in sessione, ma il prezzo politico da pagare sarebbe enorme.
Tutto questo potrebbe sembrare solo un gioco delle parti tra i repubblicani ma è invece un test della robustezza delle istituzioni democratiche, a cui palesemente Trump è estraneo e indifferente.

Il suo narcisismo gli impedisce di valutare appieno la necessità di avere alleati per governare, come del resto prova il suo bilancio nei primi sei mesi di mandato, che sul piano legislativo è zero.

Il famoso muro ai confini con il Messico è di là da venire, il piano di costruzione di infrastrutture è inesistente, mentre delle politiche per riportare negli Stati Uniti i posti di lavoro perduti a causa della globalizzazione non si è più sentito parlare. Perfino la cancellazione dell’odiata riforma sanitaria di Obama, che doveva essere una cosa da realizzare in pochi giorni, si è impantanata in senato.

Per mascherare l’incapacità di mantenere le sue promesse elettorali, Trump ha moltiplicato i gesti simbolici, come il ritiro dal trattato di libero scambio TTIP, quello dagli accordi di Parigi sul clima e, nelle ultime 48 ore, l’annuncio che ai transessuali sarà vietato di prestare servizio nelle forze armate. Ma queste operazioni d’immagine non possono nascondere l’isolamento crescente e la debolezza della sua presidenza, aggravata dalle raffiche di tweet notturni in cui sfoga le proprie frustazioni. La vera incognita dei prossimi mesi è quanto il matrimonio d’interesse con il partito repubblicano possa reggere, prima che i dirigenti di quest’ultimo decidano di abbandonare il megalomane presidente al suo destino.