«Il nostro prodotto è il dubbio, è il miglior strumento per competere con i fatti nella mente del pubblico». Chi l’ha detto? Donald Trump per il Covid, citando un medico che nega il record americano di morti e infettati? Donald Trump per il cambiamento climatico, citando uno scienziato che afferma che il Kentucky si raffredda, altro che balle? Donald Trump per il risultato elettorale, citando un analista pronto a giurare che il voto postale è una frode? Covid, clima e legalità del voto sono stati tre dei sei temi fissi del primo dibattito elettorale Trump-Biden, combattuto la notte scorsa a Cleveland, Ohio.

Ma no, non l’ha detto lui.

[do action=”citazione”]L’ha detto un funzionario del gigante del tabacco Brown & Williamson. Nel 1969.[/do]

Lo chiamano «tobacco playbook», il libro degli schemi di gioco dei giganti del tabacco. Significa pressappoco «dite pure qualsiasi cazzata, meglio ancora pagate qualche esperto per dirla, non serve che sia vera ma che semini incertezza con un’aria di scientificità».

Questo gioco, i super-tabaccai americani l’hanno giocato per oltre mezzo secolo prima di ritrovarsi a pagare risarcimenti gonfi di zeri. E dopo il loro successo, il tobacco playbook è stato ripreso e perfezionato dai petrolieri contro il climate change, dalle industrie della plastica e dei pesticidi contro l’inquinamento, dagli zuccherieri contro l’obesità…

Donald Trump l’ha importato in politica. Ci ha vinto la campagna elettorale del 2016, mitragliando di panzane la seriosa e competente Hillary Clinton. Ci ha costruito quattro anni di vita alla Casa bianca. Ora ci riprova, mettendo nel mirino la legalità stessa delle elezioni. Ciò che fa la differenza tra un moderno paese occidentale e la Bielorussia.

IN UN TRISTE NATALE DEL ’53, i capi delle multinazionali del tabacco si incontrarono in una suite dell’Hotel Plaza a New York. Erano preoccupati dai cali delle vendite e dei pacchetti azionari: arrivavano le prime serie denunce scientifiche sui danni del fumo. Impauriti ma decisi a continuare a fare miliardi, decisero di affidarsi a un big delle pubbliche relazioni, John Hill di Hill & Knowlton, che disse loro: non c’è trucco che tenga tranne uno, combattere la scienza con la scienza.

 

 

Arruolarono medici e ricercatori ed era nato il Whitecoat Project, il Progetto camice bianco (come un sinistro programma della Difesa degli anni Cinquanta che consisteva nell’iniettare tossine a inconsapevoli obiettori di coscienza). Per ogni morto di cancro con i polmoni incatramati c’era uno scienziato a libro paga per il quale le Philip Morris erano «scientificamente» non irritanti e le Camel senza filtro «non avevamo mai registrato un solo caso» di infiammazione alla gola.

FU UN SUCCESSO talmente travolgente che ogni industria tossica ne copiò gli schemi. Finché un epidemiologo, docente di salute pubblica alla George Washington University, non diede alle stampe nel 2008 il suo primo libro, Doubt is their product. Setacciando gli immensi incartamenti delle industrie venefiche, il professor David Michaels scovò il cinico memo del dirigente di Brown & Williamson, il tabaccaio delle Kool, delle Pall Mall e delle Lucky Strike che si fumano in Italia. E scovò le connessioni tra i tabaccai e altre manifatture pericolose, in particolare i petrolieri e la loro allergia ideologica al riscaldamento globale.

Smascherati? Neanche per sogno. Poco più di sei mesi fa, nel febbraio del 2020, David Michaels ha pubblicato The triumph of doubt, il trionfo del dubbio, in cui aggiunge analgesici oppioidi, rete 5G e vaccini ai prodotti della scienza a tassametro. «Non c’è dubbio – dice ora Michaels – che la sfiducia nella scienza e negli scienziati ha reso più difficile fermare il coronavirus». Nonostante oltre 200mila morti e il primato mondiale di infettati, Trump sta ancora imbracciando la manifattura del dubbio. Come già aveva fatto con il clima. E come farà con il risultato delle elezioni.

L’ASTRUSO SISTEMA elettorale americano prevede voti al seggio e voti per posta. Questi ultimi arriveranno giorni, forse molti, dopo la chiusura delle urne. E secondo Trump saranno soggetti a brogli – lo dice solo lui e non porta una sola prova, ma il playbook prescrive proprio questo. Significa che il 3 novembre, il supermartedì elettorale in cui vota la maggior parte d’America, per avere un vincitore certo bisognerà aspettare voti che Trump ha già definito imbroglioni.

Un incubo che sta facendo sudare freddo tutti i social media. Se Trump e Biden decidessero di proclamarsi entrambi vincitori i vari Facebook, Twitter e Whatsapp si troverebbero a dover bloccare i loro post e milioni di altri per giorni e giorni o diventare megafoni di ogni teorico del complotto o di ogni frontman da corteo. «Con i risultati che potrebbero farsi aspettare per giorni o settimane – ha scritto Mark Zuckerberg sul suo Facebook – può aumentare il rischio di una sollevazione civile».

SOLO UNA VITTORIA A VALANGA può scongiurare il ricorso ai tribunali (di cui l’ultimo e decisivo, la Corte suprema, è stata preventivamente imbottita di trumpisti) o peggio il ricorso alle piazze, già infiammate nei non pochi casi di neri ammazzati.

[do action=”citazione”]Un pugno di voti separa infatti Trump da una non-sconfitta che il famoso playbook potrebbe trasformare in vittoria.[/do]

Gli analisti elettorali usano uno strumento psicometrico detto Scala di Liker, dal nome dello psicologo che la inventò decenni fa, una misura in 7 gradi dell’atteggiamento, di cui il grado 4 è «indipendente» – o come si dice sui network americani, toss up, come un lancio di monetina.

Con le rilevazioni aggiornate a ieri degli analisti indipendenti di Cook Political Report*, sarebbero solo tre gli Stati toss up secondo Liker: Florida, Georgia e North Carolina, tutti repubblicani. E sono divisi da circa 332mila elettori: se la metà più uno di loro sposta il suo voto vince Biden, se no vince Trump. Vuol dire circa 166mila elettori più uno da fermare, convincere, imbrogliare, depistare… Su una popolazione di 332 milioni di persone, è niente.

UN GIOCO DI NUMERI, certo, senza alcuna pretesa di accuratezza. Ma è un gioco pericolosissimo. E gli schemi sono stati dettati dalle big del tabacco molto tempo fa.

 

*Errata corrige: per errore era stata pubblicata la frase “Con i dati del 2016, sarebbero tre gli Stati toss up”