Finalmente, dopo anni di disattenzione, il dibattito pubblico ha iniziato a interessarsi di autonomia regionale differenziata: una questione suscettibile di condizionare il futuro dell’Italia, che merita di essere discussa nelle sue molteplici sfaccettature.

Anzitutto: che cos’è l’autonomia regionale differenziata?
È la facoltà attribuita alle regioni ordinarie (non a quelle speciali, per le quali vale una disciplina a parte) di aumentare le proprie competenze normative e gestionali in ambiti oggi disciplinati e amministrati dallo Stato. Tale facoltà non era prevista nella Costituzione del 1948: è stata introdotta dalla riforma costituzionale voluta dall’Ulivo nel 2001, all’art. 116, co. 3, Cost.

In quali materie le regioni possono aumentare le loro competenze?
In moltissime materie, tra cui: sanità, istruzione, università, ricerca, lavoro, previdenza, giustizia di pace, beni culturali, paesaggio, ambiente, governo del territorio, infrastrutture, protezione civile, demanio idrico e marittimo, commercio con l’estero, cooperative, energia, sostegno alle imprese, comunicazione digitale, enti locali, rapporti con l’Unione europea. Significa che, in tutte queste materie, lo Stato potrebbe perdere quasi ogni ruolo, demandando ogni potere alle regioni. Si potrebbe giungere a regioni che assumono insegnanti, medici, infermieri e personale amministrativo della giustizia, gestiscono i musei, acquisiscono al demanio regionale strade, ferrovie, fiumi e litorale marittimo, decidono le procedure edilizie, stabiliscono i piani paesaggistici, governano il ciclo dei rifiuti, intervengono a sostegno delle imprese e della ricerca anche nelle relazioni internazionali e via dicendo: di fatto – lo ha denunciato Gianfranco Viesti parlando di rischio «secessione» – sarebbero come Stati semi-indipendenti.

Se tutto ciò si realizzasse, si potrebbe ancora parlare di unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.)?
A ben guardare, no, considerato che sono coinvolte le principali leve attraverso cui la Repubblica è chiamata a realizzare il proprio fondamentale obiettivo costituzionale: l’uguaglianza in senso sostanziale, in modo che a tutti sia consentito il pieno sviluppo della propria persona (art. 3, co. 2, Cost.).

E come devono fare le regioni per ottenere queste competenze?
Il nuovo art. 116, co. 3, Cost. dispone che la regione interessata raggiunga un’intesa con lo Stato sull’incremento delle proprie competenze e che poi tale intesa sia recepita in una legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta. C’è però un problema: posto che la trattativa tra regione e Stato in vista del raggiungimento dell’intesa è condotta dalla giunta regionale e dal governo (i due organi esecutivi), il Parlamento, quando sarà chiamato a recepire in legge l’intesa, potrà modificarla o dovrà limitarsi a scegliere se respingerla o approvarla? Le regioni sostengono la seconda ipotesi, per tutelarsi dal rischio di modifiche successive alla trattativa, ma sarebbe assurdo che l’organo chiamato a realizzare l’interesse generale – il Parlamento – non potesse esercitare poteri decisionali su una questione che investe pienamente proprio l’interesse generale.

Tali dubbi procedurali potrebbero essere risolti da una legge di attuazione dell’art. 116, co. 3, Cost.?
È quello che vorrebbe fare il governo con la c.d. legge Calderoli (in realtà, al momento, una mera proposta), per la quale il Parlamento può esprimersi solo con un atto d’indirizzo. Tuttavia, poiché, come visto, l’intesa Stato-regione va approvata dal Parlamento con una legge, la legge Calderoli non può disciplinarne la procedura di adozione: fonti del diritto dotate di pari forza – come, appunto, la legge di recepimento dell’intesa e la legge Calderoli – non possono prevalere l’una sull’altra. Solo una legge costituzionale, in quanto dotata di forza superiore, potrebbe vincolare la legge di approvazione dell’intesa. Ma per approvare una legge costituzionale sono necessari tempi più lunghi e maggioranze più ampie, mentre la Lega ha bisogno di un risultato politico immediato.

Ma allora la proposta Calderoli non è vincolante nemmeno nella parte in cui stabilisce che prima dell’attribuzione delle nuove competenze alle regioni occorre approvare i livelli essenziali delle prestazioni (lep) inerenti ai diritti civili e sociali?
Esatto, vale lo stesso ragionamento appena svolto: le nuove competenze potrebbero comunque essere attribuite alle regioni anche senza che prima siano approvati i lep.

Quindi la proposta Calderoli a cosa serve?
Serve, dal punto di vista politico, a definire i rapporti di forza tra gli autonomisti (la Lega, parte di Fi e l’area Bonaccini del Pd) e i centralisti (le restanti forze politiche): nel merito, se la proposta Calderoli venisse approvata, a prevalere sarebbero gli autonomisti, dal momento che la legge non attribuisce al Parlamento alcun ruolo decisionale né sulla definizione del contenuto dell’intesa, né sulla determinazione dei lep.

A proposito di lep: come e quando saranno individuati?
La risposta è nella legge di bilancio 2023, che prevede i seguenti passaggi (da realizzarsi entro un anno): (1) la Commissione tecnica per i fabbisogni standard (esperti di nomina governativa) formula una prima ipotesi di lep; (2) la Cabina di regia (composta da membri del governo e da rappresentanti di regioni, province e comuni) stabilisce in quali materie definire i lep (dunque, non in tutte) e provvede a definirli nello specifico; (3) la Conferenza unificata (Stato-regioni-enti locali) fornisce il suo parere e il Parlamento si esprime tramite un atto d’indirizzo: in entrambi i casi, senza effetti vincolanti; (4) il Presidente del Consiglio approva i lep con dPcm.

È una procedura costituzionalmente corretta?
No, per tre motivi: anzitutto, la Costituzione attribuisce il compito di definire i lep al Parlamento, che invece sarà chiamato a esprimere un semplice indirizzo; inoltre, la Costituzione prevede che i lep siano definiti in tutte le materie che coinvolgono diritti, mentre il governo sceglierà in quali materie definirli e in quali no; infine, il fatto che alla base del procedimento vi siano i fabbisogni standard significa che sarà il bilancio a definire i livelli essenziali dei diritti, mentre dovrebbe avvenire il contrario (come sancito dalla Corte costituzionale nella sentenza 275/2016, in base alla quale prima si individuano i diritti e dopo si predispone il bilancio, in modo che nessun diritto rimanga privo di adeguati finanziamenti).

Dai lep dipenderanno le risorse attribuite alle regioni per l’esercizio delle nuove competenze?
No, tali risorse saranno definite da una Commissione paritetica tra Stato e regione e finanziate con parte dei tributi raccolti sul territorio regionale. Alla base, c’è la rivendicazione regionale del c.d. residuo fiscale, per cui le regioni che pagano in tasse più di quanto ricevono in spesa pubblica avrebbero il diritto di trattenere almeno parte delle risorse versate al fisco. Si tratta, però, di una rivendicazione illogica e incostituzionale: illogica perché a pagare le tasse sono le persone (non le regioni) e lo fanno sulla base dell’ammontare del loro reddito (non del luogo di residenza); incostituzionale perché gli artt. 2 e 53 Cost. sanciscono che la solidarietà economica e tributaria deve operare a livello nazionale, non regionale.

Ma, allora, definire i lep a cosa serve?
Dai lep dovrebbe dipendere il livello minimo di finanziamento assegnato ugualmente a tutte le regioni, in modo che tutte possano offrire le medesime prestazioni di base. Ma c’è poco da illudersi: in sanità i lep già esistono (sono i lea: livelli essenziali di assistenza) e, tuttavia, l’ammontare del finanziamento e la qualità delle prestazioni regionali sono tutt’altro che uniformi.

Quali regioni hanno sinora manifestato l’intenzione di avvalersi dell’autonomia differenziata?
Tutte le regioni ordinarie, con le sole eccezioni di Abruzzo e Molise. Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sono quelle più avanti nelle trattative con il governo, al punto da aver già sottoscritto una bozza d’intesa; le altre hanno chiesto di avviare le trattative o hanno manifestato l’intenzione di farlo.

Quali sono, secondo le bozze d’intesa, le competenze che verranno attribuite a Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna?
Si tratta di un novero di competenze amplissimo: il pieno governo della sanità e della scuola; il potenziamento attraverso appositi fondi di università e ricerca; la regionalizzazione dei musei; l’organizzazione della giustizia di pace; l’acquisizione di strade e ferrovie al demanio regionale; il controllo di porti e aeroporti; la protezione civile; il governo del ciclo dei rifiuti; le semplificazioni amministrative in tema di edilizia; la produzione, il trasporto e la distribuzione energia; ecc. Il Veneto è la regione che si spinge più in là: vorrebbe la laguna di Venezia, il controllo dei flussi migratori, persino il reclutamento dei Vigili del Fuoco! L’Emilia-Romagna ha un atteggiamento più prudente, ma ugualmente incisivo: per esempio, non chiede il rapporto di lavoro con gli insegnanti, ma fondi integrativi per poterne assumere di più e pagarli meglio.

Non è quindi vero che Bonaccini ha avuto un atteggiamento diverso da quello di Zaia e Fontana?
Lo ha avuto sul piano formale, assai meno su quello sostanziale. L’impressione è che l’Emilia-Romagna si sia mossa autonomamente solo inizialmente, per poi accodarsi a Veneto e Lombardia al momento di stringere l’accordo col governo: colpisce che i testi delle tre bozze d’intesa siano, in ampie parti, identici (in contraddizione con l’idea stessa di autonomia, che dovrebbe essere motivo di differenziazione, non di uniformità).

E le regioni speciali?
Le regioni speciali sono a disagio per due motivi. Il primo è che possa perdere di significato la loro stessa previsione costituzionale: se tutte le regioni possono differenziarsi, che senso ha continuare a distinguere le regioni in ordinarie e speciali? Il secondo è che, tramite la differenziazione, le regioni ordinarie possano, almeno in certi campi, acquisire competenze più ampie di quelle oggi spettanti alle regioni speciali. Per questo la proposta di legge Calderoli cerca di estendere l’autonomia differenziata anche a queste ultime, a costo di operare l’ennesima forzatura incostituzionale: è chiaro, infatti, che solo una legge costituzionale potrebbe estendere alle regioni speciali la portata applicativa di una disposizione costituzionale – l’art. 116, co. 3, Cost. – pensata per le regioni ordinarie.

Come fermare, allora, l’autonomia differenziata?
La via maestra sarebbe quella di eliminare dalla Costituzione l’ipotesi stessa di autonomia regionale differenziata. Più realisticamente, si potrebbe modificare l’art. 116, co. 3, Cost., riducendo il numero di materie richiedibili dalle regioni, introducendo una clausola di supremazia statale a tutela dell’interesse generale e prevedendo la possibilità di sottoporre a referendum approvativo e abrogativo la legge di recepimento dell’intesa (come prevede la legge costituzionale di iniziativa popolare promossa dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale sottoscrivibile qui). Infine, come minimo, occorrerebbe quantomeno interpretare l’art. 116, co. 3, Cost. alla luce del principio fondamentale posto a tutela dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.) e, dunque, rigettare come incostituzionale qualsiasi richiesta di nuove competenze non risulti giustificabile alla luce di un’effettiva esigenza di differenziazione (per geografia, territorio, popolazione, storia, economia, organizzazione, ecc.). A maggior ragione, sono dunque da ritenersi incostituzionali richieste così ampie da coprire tutto o quasi il richiedibile, come quelle avanzate da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna.