«C’è sempre una famiglia o la ricerca di una famiglia al centro dei film che ammiro: Mouchette di Bresson, Luci d’inverno di Bergman, Lo specchio di Tarkovskij, Figlio unico di Ozu», rivela Hilal Baydarov, regista azero di In between dying presentato nel concorso principale alla Mostra. Noto nel circuito dei festival di cinema documentario, questa volta Baydarov firma un road movie sulla ricerca di amore e completezza girato tra la capitale, Baku, e le aspre zone montagnose che la circondano. Il film segue il personaggio di Davud, giovane uomo in nero interpretato dall’attore-feticcio Orkhan Iskandarli, in un periplo circolare scandito da incontri e incidenti: «Ogni volta che mi imbatto in una persona nuova, qualcuno è destinato a morire», dice a un certo punto.

IL SUO VIAGGIO inizia come fuga dai tre sgherri che lo inseguono per punirlo dell’omicidio accidentale del brutto ceffo che aveva azzardato un commento volgare sulla sua ragazza. E si tratta anche di un percorso d’espiazione per non aver saputo prendersi cura con pazienza della madre malata, lasciata a casa in attesa delle sue medicine. Ogni volta che Davud cerca un nascondiglio o un po’ d’acqua, incappa in donne sofferenti, che vorrebbero a loro volta fuggire da una vita disperata e senza senso. C’è la ragazza che ha contratto la rabbia dal morso di un cane e che uccide il padre azzannandolo al collo, c’è la moglie vittima delle botte del marito che si ribella massacrandolo a sassate e c’è la sposa infelice che fa l’autostop e sembra poter trovare insieme a Davud un destino diverso.

PRIMA e dopo ogni morte che scandisce questo viaggio iniziatico al termine della notte, il film intraprende una sosta, un’incursione in una dimensione più astratta e poetica dell’esistenza in cui vediamo un uomo quasi sempre di spalle in una piana verde o in una foresta di tronchi scuri insieme a una donna velata come una Madonna nera, un’icona, una figura ancestrale. In queste lande del profondo, luoghi reali che il cinema trasforma in raffigurazioni dell’inconscio o dello spirito, talvolta appare un cavallo bianco o un gregge di agnelli, immagini di grazia. Ma in un film in cui ogni inquadratura, in tutto il suo rigore compositivo, esprime il senso più profondo del nostro essere creature che vengono dalla terra e alla terra tornano, un ruolo di primo piano lo riveste il paesaggio ieratico e severo dell’Azerbaijan. In fondo, il crimine iniziale e tutto l’inseguimento che ne scaturisce non sono altro che il pretesto perché lo sguardo possa compiere il suo viaggio tra rupi, montagne, strade perdute nelle nebbie. «La natura ha un’anima» ha spiegato Baydarov «il cinema non è un’arte visiva perché non riguarda il visibile bensì i sentimenti nascosti, i lati invisibili della natura umana che si possono esprimere filmando il paesaggio».

C’È TALVOLTA una sottile ironia nel mondo grave di In between dying: gli sgherri improbabili che si stagliano sul profilo di una montagna e la loro goffaggine sono il segno di un dispositivo cinematografico che non cede alla tentazione del puro compiacimento estetizzante e sa prendere distanza da se stesso anche quando si confronta con quello che in fin dei conti è il tema di tutte le opere di Baydarov, il dolore: «Mi sono sempre sentito vicino a chi soffre. Osservo con stupore il modo in cui la sofferenza incide il tempo sui volti e li rende belli», recitava l’incipit di Nails in my brain passato all’ultimo Cinéma du Réel a Parigi. Prima di allora era stata la volta di Mother and Son, visto in Italia al Trieste Film Festival, e poi dell’altrettanto magnifico When the Persimmons Grew passato all’ultimo TFFdoc Internazionale e aggiudicatosi un premio al Vision du Réel di Nyon.
Questa volta Baydarov si avvale del sostegno di produttori esecutivi come Carlos Reygadas, incontrato a Sarajevo alla scuola di cinema di Béla Tarr, Susan Rockefeller, Danny Glover e Joslyn Barnes: strane combinazioni degli iter coproduttivi internazionali.