Con Rex Tillerson fuori dal Dipartimento di stato, passato di mano all’attuale direttore della Cia Mike Pompeo, a sua volta sostituito dal senatore Tom Cotton, si è a un passo dalla cancellazione dell’intesa sul nucleare iraniano, l’Iran Deal.

Si è un passo, dunque, dal rischio reale di un conflitto tra i pesi massimi della regione mediorientale, nell’inasprirsi in Asia del confronto con la Cina, dietro quello con la Corea del Nord.

Lo scenario (per ora ipotetico) di un terremoto al vertice della diplomazia e dei servizi di spionaggio statunitensi è evocato dal New York Times. L’ex numero uno di Exxon-Mobil è apparso fin dall’inizio una stravagante componente di normalità in un contesto contrassegnato dalla vorticosa effervescenza di un presidente senza inibizioni.

L’unica variazione, rispetto alle indiscrezioni che da tempo, periodicamente, appaiono sui media statunitensi, è l’ascesa di Mike Pompeo e non di Nikky Haley, l’ambasciatrice alle Nazioni unite che, al confronto con Tillerson, è un falco, ma al confronto con il direttore della Cia è una colomba. Pompeo è dichiaratamente contrario all’Iran Deal. Non vede l’ora di dare «una lezione» agli ayatollah, in sintonia con Arabia Saudita e Israele. Se è vero che il licenziamento di Rex Tillerson è il frutto di spinte molto forti da parte una fazione dei militari che sono ai posti di comando della Casa Bianca e dell’amministrazione, John Kelly innanzitutto, c’è da temere che la corrente, peraltro minoritaria, della «diplomazia innanzitutto» sia ormai definitivamente fuori gioco, messa alle corde dalla componente che fa capo al complesso militare industriale, forte e molto considerata in questa amministrazione.

In questa componente, tuttavia, c’è anche chi, come il capo del Pentagono John Mattis, è in sintonia con Tillerson sulla preminenza dell’azione diplomatica. L’allontanamento di Tillerson è l’esito – si legge da tempo – di una crescente tensione con Trump, venuta anche allo scoperto. Tillerson aveva dato del «cretino» al suo capo, questi l’aveva ricambiato con un «Rex, stai sprecando il tuo tempo», riferendosi agli sforzi del dipartimento di stato per cercare uno stop diplomatico all’escalation nucleare di Kim Jong-un.

Eppure poteva sembrare – forse lo è ancora? – un conflitto ricomponibile, tra Rex e «The Donald», considerando che quest’amministrazione – almeno finché regnava dietro le quinte l’isolazionista Steve Bannon – non sembrava incline a lanciare guerre, essendo più interessata a una guerra interna, alla resa dei conti con la parte progressista del paese, per metterla definitivamente ko, dopo la sconfitta da essa subita nel novembre 2016. La tentazione di aprire un conflitto con l’Iran può avere a questo punto un senso, in un quadro nel quale le tensioni in Estremo oriente richiedono un salto rispetto al ping pong messo in scena finora da Washington e Pyongyang, con quest’ultima in evidente posizione di vantaggio.

Ma è un salto che l’apparato militare americano non è in grado di affrontare, senza portare a limiti estremi la tensione con Pechino. Il teatro del Golfo può essere il «surrogato» di quello estremorientale.

Con il sostegno attivo delle due potenze militari della regione, Arabia Saudita e Israele, l’attacco a Teheran può sembrare fattibile ai falchi di Washington, con il vantaggio di impartire una lezione, a distanza, anche ai nordcoreani e lanciare un monito alla Cina. Una follia. Che sembra prendere corpo. Il quadrante asiatico è molto più importante oggi di quello mediorientale, ma è anche difficile da affrontare con l’idea d’instaurare un predominio americano con i mezzi della guerra.

Il Vietnam non è poi così lontano nel tempo per capirlo, ma anche i 54.246 caduti americani nella guerra di Corea non possono essere dimenticati. In entrambi i teatri – Asia e Golfo – è considerevole la presenza russa, che, nonostante tutto quanto si possa dire, sembra essere l’unico vero deterrente all’avventurismo di Trump, anche nei confronti dell’Iran. Tillerson era il garante di questa relazione, che avrebbe dovuto diventare «speciale» nei piani del duo Trump-Bannon e che avrebbe dovuto essere l’asse della politica internazionale di questa amministrazione. La sua uscita implicherebbe una revisione definitiva di quest’idea. Se è così, si entra in una fase di totale imprevedibilità e instabilità a Washington che il mondo rischia di pagare caro.