Nel 2014 si può discutere di Cuba senza cadere nel clima da derby Roma-Lazio? Dimostra quanto sia difficile farlo un articolo di Pierluigi Battista, sul Corriere della Sera di ieri, particolarmente velenoso contro Ignacio Ramonet per una conversazione con Fidel Castro ospitata da questo giornale e contro il manifesto per le sue contraddittorie posizioni su Cuba.

Lasciamo da parte considerazioni di tipo giornalistico (scorrete google e vedrete che di quella conversazione Ramonet-Castro si è parlato da Melbourne a Berlino e quindi pubblicarla è un servizio offerto ai lettori che possono giudicare domande e risposte). Andiamo al nocciolo politico. Capita spesso di essere schiacciati tra inneggianti al castrismo che non vogliono vedere – per citare solo episodi recenti – le condanne a morte del 2003, il dissidente Orlando Zapata Tamayo morto nel 2010 a causa di uno sciopero della fame, i limiti di una esperienza storica e chi invece predica più duri accerchiamenti politici ed economici che finora non hanno dato i risultati sperati. Ha scritto Eduardo Galeano: quando si parla di quell’isola, Cuba fa male sia a chi ha creduto all’utopia del socialismo, sia a chi – in un mondo totalmente mutato dal 1959, anno della rivoluzione cubana, e dal 1989, quando cadde il Muro di Berlino – vede che quell’esperienza non si cancella.

Lo scorso 10 dicembre c’è stata una stretta di mano tra Barack Obama e Raúl Castro a Johannesburg, occasione i funerali di Nelson Mandela. L’immagine ha fatto il giro del mondo. Un mese prima Obama si era recato a Miami con l’obiettivo di fare il punto sul «caso Cuba» che dal 1959 costituisce un problema da cui gli Stati Uniti non riescono a venire a capo. In quell’occasione ha pronunciato frasi non di circostanza: «Tenete in considerazione che quando Castro andò al potere io ero appena nato, per cui non ha senso che le stesse politiche del 1961 siano valide ancora oggi nell’età di Internet e Google». Annunciando novità nelle relazioni verso l’isola, il presidente statunitense ha concluso: «Dobbiamo mostrarci creativi e ponderati, continuando ad aggiornare la nostra politica».

La stampa internazionale ha interpretato quelle parole di Obama come l’annuncio del possibile annullamento in tempi ragionevoli dell’embargo economico verso Cuba in vigore dal lontanissimo 1962. A proposito di embargo, il 29 ottobre gli Stati Uniti hanno intanto ricevuto l’ennesimo segnale politico dall’Assemblea delle Nazioni unite: 188 voti a favore della mozione che proponeva la fine delle misure di discriminazione economica, 2 voti contrari e 3 astensioni. È la ventiduesima volta che l’Onu si espime contro il bloqueo. Unico paese a votare insieme agli Stati Uniti è stato Israele. I tre astenuti occorre cercarli con la lente d’ingrandimento sul mappamondo: Palau, Micronesia, Isole Marshall. Tutto questo non è «una logora pellicola del passato», per citare Battista: è quello che accade nei nostri giorni intorno a Cuba.

Tornando al viaggio di Obama a Miami, erano presenti all’incontro con il presidente statunitense Berta Soler, leader del gruppo delle Dame in bianco (le mogli e le parenti dei detenuti politici), e Guillermo Fariñas, famoso per alcuni scioperi della fame in nome dei diritti umani e Premio Sakharov 2010 ricevuto da parte del Parlamento europeo a Bruxelles. Va sottolineato che sia Soler, sia Fariñas risiedono a Cuba: quindi, hanno ricevuto un visto per lasciare l’isola e farvi ritorno. Se ne deduce che al dialogo con Washington non sono disinteressate le autorità dell’Avana.

Il discorso di Obama a Miami non è l’unico segnale di disgelo. A settembre 2013 le rispettive diplomazie si erano incontrate per ripristinare «la comunicazione postale diretta» interrotta – pensate un po’ – dal 1963: lettere e pacchi, nelle due direzioni, passavano dal Canada prima di andare a destinazione. In precedenza, l’amministrazione Obama aveva fatto ripartire il dialogo sui flussi migratori che si era spezzato nel 2011. Merito di Obama è anche aver cancellato alcune norme volute dal suo predecessore George Bush junior che limitavano i viaggi a Cuba dei cubanoamericani e gli invii di denaro alle famiglie di origine. L’Avana è ormai piena di turisti americani che aggirano l’embargo aereo via Giamaica o Messico.

Cuba, a sua volta, non sta ferma. Almeno sul versante economico. Alcune liberalizzazioni avanzano, seppure non a ritmo di salsa. Sarebbero oltre 500 mila i lavoratori por cuenta propia (cioè, non dipendenti dello Stato) nei settori dell’artigianato e dei servizi incentivati dal governo. Il loro numero cresce periodicamente. Aziende pubbliche e cooperative possono fallire, se i loro bilanci risultano in deficit mentre se producono guadagni possono assumere e aumentare le retribuzioni dei propri dipendenti (il socialismo tutto statalizzato del passato non contemplava compatibilità economiche). Registi, musicisti, cantanti e operatori culturali possono assumere collaboratori senza la mediazione di enti statali. Mossa positiva pure in campo sportivo: via libera agli atleti che vogliono diventare professionisti all’estero alla sola condizione che paghino le tasse a Cuba. Ancora: il presidente Raúl Castro ha annunciato a metà ottobre l’avvio del processo economico che porterà al superamento del sistema della doppia moneta in vigore sull’isola dal 1994 (peso e dollaro prima, peso e peso convertibile negli ultimi anni). Cuba accelera dunque i propri cambiamenti economici mentre resta timida sul fronte politico. Gli analisti statunitensi parlano di «modello cinese in miniatura»: economia mista che convive con il potere politico centralizzato nel tentativo di non fare la fine dell’Urss di Mikhail Gorbaciov.

Altra questione. Sono passati più di 50 anni dall’avvio dell’embargo di Washington contro l’isola. Ne sono passati 24 dal crollo del Muro di Berlino e dall’avvio della fine dei cosiddetti «paesi del socialismo reale». E ne sono passati 7 da quando Fidel Castro non dirige più la politica cubana in prima persona. Possibile credere che siamo ancora qui a parlare di Cuba e del suo destino solo perché – come scrive Battista – è «una prigione a cielo aperto»? L’analisi andrebbe raffinata e bisognerebbe capire le tante ragioni che stanno dietro la «resistenza» cubana (da una rivoluzione non importata al nazionalismo anti-Usa, dalla nebulosa prospettiva di diventare protettorato degli Stati Uniti al dato di fatto che è difficile cancellare nel bene e nel male mezzo secolo di storia). Come canta il cantautore avanero Pablo Milanes, «Cuba non è una società perfetta ed è piena di contraddizioni». Non è il Paradiso e neppure l’Inferno.

Battista ha infine l’indice puntato contro il manifesto e la sua posizione contraddittoria verso Cuba. Per questo, cita gli articoli severissimi di K.S. Karol (il suo libro La guerriglia al potere è uno straordinario reportage datato 1970) e noi potremmo ricordare quelli non meno critici di Rossana Rossanda. Cuba si era incamminata negli anni settanta in un cieco filosovietismo di sopravvivenza perdendo le proprie peculiarità: giusto tagliare i ponti allora. Dopo il 1989, siamo tornati a interrogarci sul perché a L’Avana non accadeva quello che era capitato nelle altre capitali dell’Est. Se su questo giornale sono usciti acritici inni al castrismo, non recavano certo la firma di Maurizio Matteuzzi, o mia o di Roberto Livi che oggi è corrispondente del manifesto a L’Avana. Abbiamo sempre cercato di ragionare e di sottrarci al clima da stadio. Quanto alla critica al «socialismo reale», questa è stata una delle ragioni originarie della nascita del manifesto nel 1969 a cui non siamo mai venuti meno.

Scrive Galeano in modo efficace: «I fatti dimostrano che l’apertura democratica è, più che mai, imprescindibile. Devono essere i cubani, e solo loro, senza che nessuno vada a metterci mano dall’esterno, ad aprire nuovi spazi democratici e a conquistare le libertà che mancano, all’interno della rivoluzione che loro hanno fatto». Un auspicio illusorio? Chissà. Ma l’alternativa è un imprevedibile redde rationem dal sapore di guerra civile che non auspica chi vuole bene a Cuba, alla sua gente, alla sua cultura. Non lo auspica nemmeno Washington.