Sulle vicende del Mediterraneo orientale e le crescenti tensioni tra il paese anatolico e i suoi vicini, in particolare la Grecia, pesa come un macigno la cronaca degli ultimi anni.

Un ventennio di governo islamico conservatore a guida del presidente Recep Tayyip Erdogan, al netto degli illusori anni iniziali, ha prodotto una spirale di autoritarismo di cui paga dazio prima di tutto il popolo turco stesso, che subisce il crollo verticale dei diritti politici e civili, e anche di quel benessere che aveva un tempo innalzato Erdogan agli onori della cronaca economica.

Ma dopo gli onori poi sono arrivati gli orrori, ed oggi se si parla di Turchia si parla di Erdogan. I due quasi costituiscono un’identità ideologica che il presidente turco ha certamente perseguito, in parte tristemente realizzato, e che genera ormai preoccupanti cortocircuiti di analisi. Anche nel caso della battaglia per il gas del Mediterraneo orientale e delle zone economiche esclusive (ZEE), dove la Turchia, in fondo, può avere ragione. Pesa anche, moltissimo, la diplomazia militarizzata di Ankara. Sanguinano ancora le ferite inflitte dalle purghe post golpe, che hanno colpito anche nei circuiti ministeriali e delle ambasciate, e l’accentramento dei poteri seguito alla riforma presidenzialista del 2017, che ha trasformato gli affari esteri della Turchia in affari personali di Erdogan. Pesano, ovviamente, gli strascichi degli eventi del Novecento, le schermaglie ed i conflitti aperti, i pogrom dei greci anatolici, gli scambi coatti di popolazione, la divisione violenta di Cipro. Eppure, la Turchia può avere ragione. Se prendessimo una mappa della regione e applicassimo alla lettera le volontà greche, ecco che forse la situazione comincerebbe ad apparirci più chiara, e le rabbiose reazioni turche, se non giustificabili, quantomeno comprensibili. I due paesi confinanti, che potrebbero condividere o spartirsi equamente le risorse dei, otterrebbero esiti diametralmente opposti. La Grecia che fagocita l’intero Mar Egeo e buona parte del Mediterraneo ad ovest di Cipro, la Turchia invece che soffoca per il cappio costituito dalle isole greche a ridosso della sua costa.

Questo uso delle isole, alcune delle quali di pochi chilometri quadri e militarizzate, costituisce una strategia aggressiva tanto quanto le navi militari di Erdogan che scortano i vascelli di esplorazione.

Perché il punto fondamentale risiede proprio lì: può questa miriade di isole costituire un legittimo elemento attraverso cui stabilire le ZEE, a prescindere da ogni altra considerazione complessiva? Per la Grecia sì, per la Turchia no.

Queste visioni diametralmente opposte potrebbero beneficiare di un arbitrato internazionale.

L’Europa ha già rinunciato a questo ruolo e sposato apertamente la linea greca. Soprattutto i principali attori coinvolti, Germania, Francia e anche Italia, agiscono più spesso a titolo personale, tramite le proprie cancellerie, che attraverso le rappresentanze dell’Unione.

Un arbitrato potrebbe sorgere in seno a quegli accordi UnClos che la Grecia reclama e la Turchia invece non ha mai sottoscritto, proprio perché punitivi. Gli allegati 7 e 8 prevedono meccanismi di risoluzione delle contese ai quali però la Grecia, pur sventolando la Convenzione, non si è mai appellata, sebbene necessitino prima un’adesione turca alla stessa.

Secondo la Turchia invece, la situazione nella regione richiederebbe dei negoziati ad hoc che abbandonino lo status quo sbilanciato a favore della Grecia, che siano gestiti direttamente tra le parti e che siano supervisionati da organizzazioni imparziali.

Nessuno dei due paesi, ad oggi, ha mosso passi significativi in questa direzione.