«Il mio nome è Mustafa Kocak, ho 28 anni. Ho vissuto con la mia famiglia a Istanbul fino all’arresto. Come uno dei quattro figli di una famiglia povera, ho passato la mia infanzia e la mia giovinezza lavorando qua e là. La mia vita è cambiata quando sono stato arrestato, il 23 settembre 2017».

Inizia così la lettera che Mustafa ha lasciato ai suoi avvocati e pubblicata dall’agenzia Bianet. Mustafa è morto 20 giorni dopo Helin Bolek, era ridotto a pesare 29 chili.

I due membri del gruppo marxista turco Grup Yorum, in sciopero della fame da mesi contro la durissima repressione scagliata contro il loro progetto artistico e politico dal governo, se ne sono andati uno dopo l’altra, ridotti pelle e ossa da una protesta estrema.

Mustafa Kocak si è spento ieri dopo 297 giorni di cibo rifiutato: chiedeva un processo equo, denunciava le torture subite.

«Tutto quello che chiedeva era un processo giusto, non gliene hanno dato la possibilità – ha commentato Omer Faruk Gergerlioglu, parlamentare del partito di sinistra pro-curdo Hdp – È diventato l’ultima vittima di un sistema ingiusto».

Nata nel 1985, con all’attivo 23 album, la band è da anni sottoposta al divieto di esibirsi in pubblico, mentre il loro centro culturale a Istanbul è stato perquisito e chiuso dieci volte negli ultimi due anni. Sei dei suoi membri sono tuttora in prigione.

Per l’accusa di aver passato armi a un’organizzazione terroristica (il marxista Dhkp-C) in violazione della costituzione, Mustafa è stato condannato all’ergastolo aggravato sulla base delle testimonianze di persone soggette a tortura, senza ulteriori prove, video, foto, impronte digitali.

«Il risultato di un processo pieno di illegalità, ha trasformato il suo resistente sciopero della fame in un digiuno fino alla morte – ha detto ieri uno dei suoi legali, Aysul Catagay – Lo hanno guardato morire giorno dopo giorno. Abbiamo perso Mustafa ma i digiuni fino alla morte continuano: gli avvocati Abru Timtik e Aytac Unsal non mangiano da 113 e 82 giorni, un altro membro del Grup Yorum, Ibrahim Gokcek, da 312».

È l’ultima ed estrema forma di protesta scelta da alcuni prigionieri politici nelle carceri turche, inascoltati da procure e tribunali prima, dalle autorità carcerarie poi.

Chiedono processi giusti, un’utopia nella Turchia del presidente Erdogan, soprattutto dopo il tentato golpe del 2016 che ha avviato una stagione di epurazioni, repressione e battaglia al dissenso che si è tradotta in un numero spropositato di detenzioni. Trentamila stimati su 300mila detenuti totali.