Angelo Del Boca è anziano, ma sempre vigile e informato su quel che accade dall’altra parte del Mediterraneo. Storico del colonialismo italiano, è esperto di Libia e, insieme a molti altri saggi fondamentali, è autore di una esemplare biografia su Gheddafi. Angelo Del Boca è il saggio al quale non si può non ricorrere, con alcune domande, per capire la nuova crisi libica.

Dunque in Libia, il «posto sicuro» per il ministro Salvini, è riesplosa la guerra…

Ma la verità è che non era mai finita. In questi ormai quasi otto anni dalla caduta violenta di Gheddafi, la guerra intestina, attivata da centinaia di milizie, «governi» e «parlamenti», su tre fronti geograficamente contrapposti, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, ha dilaniato il paese. La Libia, come avevo detto, assomiglia alla Somalia per restare in Africa; si sta rompendo in mille pezzi. Volta a volta abbiamo preferito guardare dall’altra parte, ma lì la scia della guerra civile non si è mai fermata.

L’offensiva militare del leader di Bengasi appare, nei media internazionali, come improvvisa ma determinata, quasi a voler unificare la Libia…

Intanto non è improvvisa, Haftar – un ex generale di Gheddafi, non dimentichiamolo, sconfitto nella guerra con il Ciad e catturato e riciclato dalla Cia – è stato sempre determinato a rimuovere quello che considera un fantoccio. Vale a dire Serraj, il leader di Tripoli, l’interlocutore dell’Italia, della comunità internazionale e dell’Onu. Ma l’iniziativa di Haftar ha mandato all’aria le fotonotizie delle sue mani calorosamente strette in giro: a Serraj, a Macron, a Putin, a Conte. Non è un mediatore, preferisce andare allo scontro. Stavolta lo smacco è grande per le Nazioni unite, il cui segretario generale Guterres era proprio a Tripoli per discutere del vertice di Ghadames che avrebbe dovuto a metà aprile sancire l’avvio di una transizione, elezioni e processi di unificazione.

Ora Haftar l’unificazione la vuole fare manu militari…

Così pare, ma non ha alcuna possibilità di riuscire in questo intento. Tanto è vero che la sua offensiva a oggi sembra ferma. Mitica, l’aeroporto decisivo della capitale dato per conquistato, non lo era, a Zawiya sulla costa c’è stata una sconfitta delle sue forze; pare poi di capire che le milizie che sarebbero dovute passare dalla sua parte – forse questo è uno degli obbiettivi dell’iniziativa di Haftar – o sono guardinghe e formalmente restano legate al governo Serraj, come quelle di Zintan, l’enclave dove ormai risiede Seif Al Islam, il figlio di Gheddafi prima prigioniero e che ora aspira a candidarsi alle elezioni. Oppure si confermano acerrime nemiche, come nel caso del vero e proprio esercito di Misurata, certo non paragonabile a quello di Haftar, ma organizzato e armato fino ai denti con armi moderne. Così forte che da mesi risolve al leader di Tripoli gli scontri che ripetutamente si sono aperti con le tante milizie islamiche locali o arrivate dopo la caduta di Gheddafi. Ora le milizie di Misurata di fatto controllano Tripoli e tengono in mano le sorti, sempre più incerte, di Serraj.

L’Eni, ufficialmente da ieri, ha cominciato a evacuare il suo personale. Che vuol dire per gli interessi italiani?
Sì, è accaduto solo nel 2011 con l’avvio della guerra Nato. Credo che voglia dire che in questo momento, dopo la fuga da Tripoli di molti uomini del Consiglio di presidenza, compreso il capo dell’azienda petrolifera libica, l’Eni non ha nella capitale della Tripolitania interlocutori capaci di garantire la continuità in sicurezza del suo lavoro. Ma i rapporti con Haftar, che ha conquistato tanti centri petroliferi, sembrano già avviati.

Chi c’è dietro il generale della Cirenaica?

Dietro ci sono di certo la Francia con i suoi interessi petroliferi e l’Egitto che è un retroterra logistico. Ma Haftar, come si ricorderà, è corso anche a Mosca da Putin. E tornano gli Usa, hanno nominato un neo-ambasciatore, Richard Norland, e si attivano con l’Arabia saudita. Qui del resto si è consumata una sconfitta storica degli americani, all’epoca della presidenza Obama e del segretario di Stato Hillary Clinton: la ferita è ancora aperta per l’uccisione dell’ambasciatore Usa Chris Stevens ad opera delle milizie islamiche di Bengasi che solo pochi mesi prima erano la fanteria della guerra Nato, a guida francese e statunitense, contro Gheddafi.

Il governo italiano come si schiera?

È un paradosso, ma sembra stare con tutti e due, da una parte con Serraj, che abbiamo portato al potere e difeso militarmente con le nostre navi militari sulla costa libica e che ora viene ossequiato dal ministro degli interni Salvini; dall’altra con Haftar, l’astro nascente e «nuovo», dal quale si è precipitato recentemente per incontrarlo il presidente del Consiglio Conte. C’è in ballo l’affare fondamentale del petrolio e l’altro, «sporco», dei migranti. Per Salvini, Serraj è il controllore delle milizie che preferisce chiamare «guardia costiera libica», perché blocchino le fughe dei profughi dall’Africa, li catturino, li tengano in veri e propri campi di concentramento. Dimenticando la memoria dei tanti campi di concentramento che l’Italia coloniale e fascista costruì in Libia nel primo dopoguerra. Anche adesso, mentre si fronteggiano milizie armate, perfino con mezzi navali, Salvini ha l’arroganza di ripetere che quello è un «porto sicuro». No, non lo era con Gheddafi che trattava con Berlusconi, non lo era con il Codice Minniti che ha dato legittimità su questo a Serraj e ora a Salvini che eredita quella nefasta strategia. E non lo sarà nemmeno con Haftar, dovesse insediarsi a Tripoli.