È tra i nomi più forti della squadra di governo di Lula, uno di quelli che suscita più speranze di cambiamento. Da quando, a settembre, dopo una lunga stagione di incomprensioni, l’ambientalista ed evangelica Marina Silva si era riconciliata con Lula, nessuno aveva mai messo in dubbio che sarebbe stata di nuovo lei a guidare quello che ora si chiamerà ministero dell’Ambiente e del cambiamento climatico, divenuto, nel frattempo, dopo i disastri dell’era Bolsonaro, ben più importante di quanto non lo sia mai stato.
E tanto più la sua figura ha acquistato rilievo con il protagonismo assunto durante la Cop27 in Egitto, dove non si era stancata di indicare come obiettivo centrale del nuovo governo quello della «deforestazione zero».

AVEVA GIÀ PROVATO a raggiungerlo nel 2003, durante la sua prima esperienza di ministra, quando aveva messo a punto un ambizioso programma di controllo del disboscamento, che, nel tempo, aveva condotto a un crollo della deforestazione del 67%.
Ma quella esperienza era finita, tra molte polemiche, nel 2008, quando la figlia di seringueiros (raccoglitori di caucciù) dell’Acre, analfabeta fino a 17 anni, considerata l’erede del grande martire ambientalista Chico Mendes, aveva presentato le sue irrevocabili dimissioni a causa delle «difficoltà affrontate per dare continuità all’agenda ambientale del dicastero» e delle «crescenti resistenze incontrate».

TRA LE FILE della sinistra ecologista, in molti pensavano in realtà che avesse aspettato fin troppo, riducendosi di fatto a svolgere una funzione meramente decorativa e garantendo così un prestigiosa spalmata di verde a una politica sottomessa agli interessi dell’agribusiness. È solo al momento di andarsene sbattendo la porta che le accuse di complicità con le misure ecologicamente insostenibili del governo Lula avevano lasciato spazio alle parole di comprensione per aver salvato, con la sua presenza, quello che era possibile salvare, ottenuto quello che era possibile ottenere, e attenuato gli effetti negativi di quello che non era possibile impedire.

IN OGNI CASO, era stato proprio in netta polemica con il Partito dei lavoratori che la ex ministra si era presentata come candidata presidenziale alle elezioni del 2010, poi vinte da Dilma Rousseff, ottenendo un inatteso 19% dei voti, in gran parte provenienti dagli ambientalisti, dalla comunità evangelica e da non pochi militanti di sinistra che avevano voltato le spalle al Pt e che vedevano in lei «la candidata ideale»: donna, militante, ecologista e socialmente impegnata con «il grido della Terra e il grido dei poveri», secondo l’espressione di Leonardo Boff, che non a caso l’aveva attivamente sostenuta.
Ci aveva riprovato, stavolta come candidata del neoliberista Psb (Partito Socialista Brasiliano) anche alle elezioni del 2014, sempre giungendo terza, ma rivelando ambiguità e inconsistenze: dalle discutibili alleanze con il mondo imprenditoriale e con settori dell’agribusiness fino alla ben poco onorevole retromarcia in materia di riconoscimento delle unioni gay e di criminalizzazione dell’omofobia: temi, questi, prima introdotti nel programma e poi, di fronte alle obiezioni del pastore evangelico Silas Malafaia, leader dell’Assemblea di Dio a cui ancora oggi appartiene, frettolosamente ritirati.

CI VOLEVA probabilmente l’incubo Bolsonaro per far riavvicinare a Lula la sua ex ministra, convinta che una rielezione del presidente di estrema destra avrebbe significato «decretare lo sterminio» dell’Amazzonia e attenta a prendere le distanze da ogni forma di fondamentalismo religioso: «Lo stato laico è una benedizione», assicurava su Twitter il primo novembre.
Che questa volta tutto sarà diverso, lei non ha alcun dubbio: «È stato lo stesso presidente – ha spiegato – a chiarire che il clima sarà una delle priorità del suo governo e che l’obiettivo è la deforestazione zero. È stato lui a dire che la politica ambientale sarà trasversale».