Crisi economica, siccità, crisi politica, crisi sanitaria, l’Algeria sembra collezionare le sciagure e il periodo che sta attraversando è uno dei peggiori dalla fine della guerra civile degli anni ‘90.

A complicare le cose l’arrivo della stagione degli incendi, complice la siccità severa che vive il paese da due anni, e le forti temperature delle ultime settimane.

I roghi divampano un po’ ovunque lungo la fascia Nord del paese. Una regione è colpita in modo particolare: la Cabilia. Ma qui i roghi sono tanti, troppi. Scoppiano all’improvviso, sempre in prossimità dei centri abitati. Tutti capiscono, e il governo conferma, che l’origine di questi numerosissimi incendi è dolosa. A 5 giorni dall’inizio della tragedia, molte località isolate lottano ancora contro le fiamme. I morti sono decine, i feriti centinaia e gli sfollati decine di migliaia. La regione è al collasso e comincia a mancare di tutto. Le autorità non sono organizzate né attrezzate per affrontare tale emergenza.

In Algeria il problema degli incendi è all’ordine del giorno da sempre, ma lo Stato, che consuma il 30% della spesa militare di tutto il continente africano, non ha mai considerato utile attrezzarsi e non dispone né di elicotteri né di aerei speciali. I vigili del fuoco usano i loro piccoli camion per cercare di proteggere le abitazioni, ma invano. E come sempre è il popolo, a cui mancano molte cose ma non la generosità, che organizza la lotta contro le fiamme e la solidarietà. Camion pieni di volontari pronti ad aiutare e di quantità enormi di cibo, medicinali, vestiti, coperte, sono arrivati da ogni dove.

Mano a mano che crescono paura e dolore, cresce anche un altro sentimento: la rabbia. La gente si sente presa di mira ma non sa da chi e allora nascono teorie del complotto che trovano uno sfogo continuo sui social media. Nel pomeriggio di mercoledì due sospetti piromani sono stati arrestati. Uno di loro è stato tirato fuori da un furgone della Polizia e ucciso da una folla inferocita. Più tardi, si è scoperto che i due erano innocenti. Erano volontari, arrivati lì per dare una mano, capitati nel mezzo di una caccia al colpevole, a tutti i costi. Ora il paese è sotto choc.

Sono mesi che i servizi del regime vanno costruendo una piccola guerra mediatica tra veri o presunti nazionalisti arabi e separatisti cabili. L’obiettivo è quello di indebolire l’Hirak, il primo movimento di protesta che riunisce tutte le regioni del paese in uno stesso slancio di cambiamento. Ma finora quella “guerra” si riassumeva in scambi di insulti e accuse. Con questo atto di follia collettiva, è l’ombra della guerra civile che si profila. Per fortuna, la famiglia del ragazzo ucciso si è comportata in modo magistrale, chiamando alla calma e all’unità. La popolazione sembra aver capito il tentativo di divisione e ora, invece di fermarsi, lo slancio di solidarietà è aumentato. Gli aiuti portano un po’ di sollievo alle persone stremate, ma tutto un popolo ha perso il sonno scoprendo che ci sono forze che pur di non perdere il potere sono pronte a incendiare tutto il paese.

Stesso slancio di solidarietà lo profonde la diaspora algerina nel mondo, grazie alla quale nel Paese, stremato dall’arrivo della variante Delta verso fine primavera, cominciano ad arrivare medicinali e apparecchiature ai tanti ospedali e centri Covid improvvisati. Ma invece di sostenere questo straordinario slancio, lo Stato algerino fa di tutto per fermarlo. Prima bloccando l’arrivo degli aiuti con complicazioni burocratiche e doganali, poi centralizzando tutto a livello della Farmacia Centrale. Nata per superare l’immobilismo dello Stato, la solidarietà si ritrova prigioniera di quelle istituzioni che fanno parte del problema e non della soluzione. Evidentemente, qualcuno, da dentro il regime, invece di risolvere i problemi cerca di inasprirli.