«I Cinquestelle hanno ereditato un vero e proprio Sarchiapone: Roma è la città della grande bellezza, ma è caricata di un debito di 15 miliardi. Quindi è complicatissima da governare. Però devi lavorare con quel che hai, e la sindaca Raggi non ha il carisma per farlo, per trainare i cittadini. Io come prima cosa riunirei un trust dei 20-30 intellettuali migliori della città per farmi dare delle idee. E poi metterei su una scuola di formazione per i 23 mila dipendenti del Comune, per aggiornarli e motivarli». Il professor Domenico De Masi, sociologo dell’Organizzazione e del Lavoro, traccia per il manifesto l’analisi dei principali problemi della Capitale.

Cosa manca prima di tutto a Roma? Perché non riesce a essere una grande capitale come tante altre nel mondo?

Il sociologo del Lavoro Domenico De Masi
Il sociologo del Lavoro Domenico De Masi

Io vedo una città addormentata, giovani e disoccupati che non lottano, non protestano come si faceva ad esempio negli anni Settanta, dove certo si eccedeva sul versante opposto, con la violenza. Manca il guizzo, la creatività, la cultura, direi la formazione. Personalmente vivo a Roma dal 1966, abito in centro storico, ma avessi mai visto, soprattutto nei tempi più recenti, una manutenzione fatta bene: si staccano i sampietrini? passa un camioncino e getta una colata di catrame. Se penso a Rio De Janeiro, dove per 30 chilometrri di costa, da Copacabana a Ipanema c’è un ininterrotto mosaico – forse la più grande opera d’arte esistente – dagli anni Cinquanta accade che quando si stacca una pietra, subito se ne cerca una simile per dimensioni e colori. E oggi quel lungomare è ancora splendido.

Formazione, quindi, a partire dai dipendenti comunali.

Esatto. Non mi pare che il municipio abbia una scuola di formazione. Fossi in Raggi, ne aprirei subito una: addestramento per gli operai e i manutentori, formazione per i manager, a tutti i livelli. Stiamo parlando di 23 mila dipendenti: se stanno fermi, affossano la città. Se ripartono, possono essere una straordinaria ossatura per la crescita. I tassisti, ad esempio, sono 6 mila: spesso si tratta di lavoratori che attaccano il Comune, o che non parlano inglese. Perché non li facciamo diventare i grandi comunicatori della città? Basterebbe un po’ di inglese, delle convention ogni tanto per motivarli, delle lezioni sui monumenti. E poi io li uberizzerei tutti, cioè li metterei in un’unica grande piattaforma comunale, una app del Campidoglio, per renderli più efficienti.

Lei fornisce anche consulenze alle grandi aziende per migliorare l’organizzazione. Intende che il Comune avrebbe bisogno di una cura simile?

Bisognerebbe fare come alle Poste. È l’esempio di modernizzazione meglio riuscito in Italia, e lo si deve a Enzo Cardi, Corrado Passera e Pierluigi Celli – già dirigente alla Rai e all’Eni – perché grazie alla formazione sono riusciti a farla sopravvivere e prosperare nel delicato passaggio dalla cartolina ai moderni servizi postali e finanziari. E non era impresa facile: 140 mila dipendenti, meno licenziamenti possibile, una struttura che prevedeva uno sportello in ogni paesino, erano più delle parrocchie. Per Roma serve un’analisi simile: capillare e incisiva.

Chi dovrebbe farla?

Io fossi in Raggi prenderei dai 20 ai 30 intellettuali – un archeologo, un urbanista, un sociologo, un architetto e così via – e li riunirei in un trust, da convocare periodicamente e quando servono delle idee. Manca la visione, lo sguardo culturale, la direzione da prendere. Virginia Raggi ha mai fatto uno stage in una grande azienda? In Google o Ibm? L’analisi e l’organizzazione sono fondamentali per qualsiasi struttura. Un manager che mi sento di apprezzare, tra quelli che hanno preso, è Massimo Colomban: ha una storia aziendale di successo, mi sorprende anzi che si sia venuto a impantanare a Roma. Ce ne vorrebbero di più.

La giunta però per il momento non carbura. E sono passati già più di sette mesi dall’elezione di Raggi. Perché grosse realtà come Almaviva o Sky decidono di lasciare Roma?

Perché Roma non si è ancora messa in linea con la propria vocazione. Ha gli snodi di mobilità, come gli aeroporti e le stazioni. Ha un enorme mercato di 4 milioni di consumatori. È sede della politica e dell’informazione, a partire da Rai e Mediaset. Ora deve tararsi sulla sua identità profonda: può diventare la capitale mondiale dell’umanesimo, dell’arte e della bellezza. Ma per raggiungere questo obiettivo devi avere il personale giusto, a partire dalla giunta: io avrei scelto come assessore alla Cultura uno degli organizzatori dei grandi festival italiani, da Mantova a Spoleto. Serve una squadra non solo di intellettuali, ma anche di organizzatori culturali.

Eppure è Milano a raccogliere oggi le maggiori soddisfazioni: non solo è meglio organizzata nelle infrastrutture, ma è leader nella moda e da poco ha il Salone del Libro.

Senza dubbio, e questo parla di tante occasioni perse per Roma. A parte che per chi perde il posto, che vada via Almaviva non mi dispiace, perché non era intrinsecamente legata all’identità della città. Se va via Sky, se andasse via Cinecittà, o, per dire, il Vaticano – come era già capitato ai tempi di Avignone – allora sì mi dispiacerebbe: perché sono pezzi di una cultura. Milano ha il Salone del Mobile, perché non ce l’ha Roma? Perché la moda si fa a Milano, quando Roma aveva grandi scuole di alta moda?

Investimenti sbagliati?

Le classi dirigenti degli ultimi 20 o 30 anni sono state controllate da manigoldi, biscazzieri, da palazzinari. La stampa – con l’eccezione del manifesto e di Repubblica – è stata dominata essa stessa da grandi famiglie. Si è investito in immobili e in finanza, non in cultura. Sono mancati sindaci forti, con carisma, come era Argan. Il Vaticano, con la sua organizzazione quasi svizzera, le sue scuole di formazione gesuite, salesiane, le sue università, è come un piccolo gioiello in una palude.

In cosa possiamo sperare?

Qualcuno si ricorda che a Roma ci sono ben 250 mila studenti universitari? Che gli atenei offrono ricerche gratuite o a prezzi stracciati? Mai nella mia carriera di docente – dal 1975 fino a due anni fa – sono stato interpellato da un ministro o da un sindaco per un contributo. E non parlo ovviamente solo di me. Se i politici ogni tanto non si siedono a lezione, ad ascoltare e prendere appunti, le città non camminano.