A differenza di tanti registi che negli ultimi tempi hanno preso posizione sullo streaming e le nuove piattaforme con un’elogio della sala, la pellicola, il grande schermo, David Cronenberg – che a Venezia ha tenuto ieri una masterclass in occasione della sua premiazione con il Leone d’oro alla carriera – si è detto del tutto entusiasta delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie. Il regista ha tessuto infatti l’elogio di Netflix – «spero che mi stiano sentendo e che mi offrano un lavoro», scherza – sostenendo come l’operato della piattaforma offra delle possibilità «rivoluzionarie». E in primo luogo l’apertura verso la novità, i territori inesplorati: «Discutendo di un progetto con loro non si parla di registi, delle star coinvolte, ma solo della storia e magari la location. La mentalità hollywoodiana è invece quella da corporation: hanno paura delle novità e quindi puntano sempre sui prodotti che hanno già avuto successo».

E anche le serie tv aprono nuove possibilità: «La sceneggiatura è come un haiku rispetto a un romanzo, in un film non ci sarebbe mai modo di inserire venti pagine di dialogo», una cosa che invece si può sperimentare in una serie. Ma la vera rivoluzione di piattaforme come Netflix, dice, è a livello della distribuzione: «Girare una serie non è differente dal realizzare un film: implica la stessa fatica fisica e psicologica. Ma poi quello che hai fatto viene distribuito contemporaneamente in centinaia di paesi, in lingua originale, con la possibilità di vederlo doppiato o sottotitolato».

Cronenberg smentisce però la notizia che lo voleva impegnato nella stesura della sua prima serie: «Dopo aver finito di scrivere il mio romanzo, Divorati, ho detto che mi sarebbe piaciuto girare una serie tv, così è stato scritto che ci stavo lavorando. Ma non era vero».

Anche nella pellicola il regista canadese non si dice affatto nostalgico: «Preferisco di gran lunga il digitale: con la pellicola mi succedeva spesso che le copie per la distribuzione non fossero come quella originale ottenuta direttamente dai negativi, che era costata tanta fatica per l’illuminazione, il colore eccetera. E poi quello che il pubblico vedeva era l’equivalente della brutta fotografia di un quadro». A Venezia Cronenberg ha scelto di portare, fra tutti i suoi film, M.Butterfly, del 1993: «Inizialmente avevo pensato a Crash, ma purtroppo il restauro non era ancora finito. Così ho scelto di riproporre al pubblico un lavoro all’epoca poco fortunato». In quel film, spiega, il diplomatico francese interpretato da Jeremy Irons è innamorato di un cantante d’opera che solo lui crede essere una donna, «probabilmente perché è gay e non riesce ad accettarlo». La storia di un’identità incerta che accomuna M.Butterfly a tutta la sua cinematografia: «In tutti i miei film si pone il problema dell’identità e della sua creazione nella vita delle persone. Ad esempio Spider la storia di un uomo che non è stato in grado di formarsene una».

La vocazione per il cinema non è però arrivata presto nella vita di Cronenberg: «Quando ero ragazzo quasi nessuno faceva cinema in Canada, e per molto tempo ho pensato che avrei fatto lo scrittore. Poi un giorno nel quartiere italiano di Toronto ho visto tante persone, adulte, uscire in lacrime da una proiezione: avevano visto La strada di Fellini. È stato allora che ho capito che il cinema non era solo intrattenimento per ragazzi, ma poteva essere una forma d’arte».