Immaginate di giocare a Risiko: il presidente statunitense Donald Trump ha tanti carri armati neri rivolti sul suo fronte occidentale. L’avvicinamento tra le due Coree gli permette di spostarne un bel mucchietto in Medio Oriente, rivolgendo i cannoni verso l’Iran.

La fortuna potrebbe non giocare a suo favore, ma ne ha talmente tanti che, se anche non vincesse a ogni mano, prima o poi riuscirebbe a sopraffare i carri armati verdi dell’Iran.
Trump tira i dadi con accanimento, soffiandoci sopra, perché lui e i falchi che siedono a Washington ce l’hanno a morte con gli ayatollah. Per quale motivo? Perché l’Iran è un paese dalla storia millenaria, mai colonia.
Un paese di gente colta, orgogliosa, che nel corso dei secoli ha saputo tenere testa agli inglesi ed è riuscito a cacciare anche le truppe sovietiche, all’indomani della Seconda guerra mondiale.

Con la Repubblica islamica, non corre buon sangue perché l’ayatollah Khomeini, che gli occidentali avevano spostato da Najaf (Iraq) a Parigi nel 1978, non si era rivelato il burattino che a Washington ci si aspettava.
E a novembre del 1979 quel vecchio con il turbante nero, che nel frattempo era diventato capo di Stato, aveva avallato la presa degli ostaggi nell’ambasciata statunitense di Teheran, liberati dopo 444 giorni di prigionia.
Se la Storia serve a spiegare l’attualità, alla Casa bianca ci sono motivi sufficienti per prendersela con Teheran. Senza dimenticare le pressioni delle lobby israeliane, che temono l’Iran: un paese grande cinque e volte e mezza l’Italia, 84 milioni di abitanti, un mosaico di etnie e lingue, con risorse energetiche e minerarie da far invidia al resto della regione.

Un altro frammento di Storia può lasciarci intendere come potrebbe andare a finire nei prossimi mesi.  Vi ricordate l’Asse del male di George W. Bush? Tre i paesi in elenco: l’Iraq di Saddam Hussein, la Corea del Nord di Kim Jong-il (il padre dell’attuale leader Kim Jong-un) e l’Iran degli ayatollah.  Era il gennaio 2002.

A quel tempo a Teheran era in carica il presidente riformatore Mohammad Khatami che aveva dato la propria disponibilità agli americani per aiutarli nel confronto con i Talebani in Afghanistan; e, mentre tanti arabi avevano esultato per gli attentati dell’11 settembre, gli iraniani avevano acceso candeline ed espresso il proprio cordoglio. Nonostante questo, il presidente americano aveva inserito l’Iran nell’Asse del male.

Ed era intervenuto militarmente per mettere fuori gioco il dittatore iracheno Saddam Hussein. Ora, la dichiarazione di Panmunjom circa un trattato di pace tra le due Coree da firmarsi entro la fine dell’anno, fa cadere l’ultima frontiera della Guerra fredda, quella sul 38° parallelo che divide in due la penisola coreana. Che cosa resta dell’Asse del male di George W. Bush? Soltanto la Repubblica islamica dell’Iran.
È quindi evidente che, eliminati gli altri due pericoli, militarmente e con la diplomazia, ora Trump si accanirà contro ayatollah e pasdaran. In questi mesi non sono mancate le sue dichiarazioni: «Teheran è dietro tutti i problemi del Medio Oriente».

E un paio di giorni fa, in occasione delle visita a Washington della cancelliera Angela Merkel, un reporter tedesco ha chiesto a Trump se gli Stati uniti sarebbero disposti a «intervenire militarmente». Lui, il presidente americano, ha risposto: «Non parlo mai dei piani militari, ma l’Iran non arriverà mai a possedere l’atomica. È una certezza che può mettere in banca».
Il problema non è l’atomica: gli ispettori dell’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, hanno a più riprese dichiarato che le autorità iraniane rispettano l’accordo del luglio 2015, che impedisce loro di dotarsi della bomba.

Se la comunità internazionale non vuole che Teheran si doti dell’atomica, l’unico strumento è far rispettare l’accordo.  Per far rispettare l’accordo agli iraniani è però fondamentale che anche gli altri lo rispettino.
In primis gli Stati uniti, che non hanno eliminato le sanzioni finanziarie come previsto.  Se entro il 12 maggio Donald Trump non rinnoverà il waiver, l’accordo rischia di andare in mille pezzi. Da Teheran, i dirigenti della Repubblica islamica hanno parlato chiaro: l’accordo non si può rinegoziare.

Se gli altri non lo rispettano, Teheran potrebbe tirarsene fuori e, al tempo stesso, abbandonare il «Trattato di Non Proliferazione» siglato dallo scià negli anni ’70.
Detto questo, resta da vedere come si muoveranno gli altri giocatori: in primis i carri armati rossi di Vladimir Putin, quelli gialli di Pechino, e l’Europa multicolore che sembra non sapere da che parte stare.