Una mappa cinese, una nazione in bianco e un’altra in nero. Sono le protagoniste del 43mo Asean Summit, vertice dall’altra parte del pianeta di dieci Paesi del sud est asiatico che stanno diventando undici con un nuovo matrimonio: Timor Est, la nazione vestita di bianco, forse nel 2025.

Il nero è invece il colore che si adatta alle tenebre del Myanmar, questione irrisolta e nazione esclusa a livello di vertice ma verso la quale gli atteggiamenti sono diversi e spaccano un fronte che, dal febbraio 2021, aveva preso inizialmente una dura posizione contro i militari golpisti che stanno affondando il Paese in una guerra, meno seguita dai media rispetto all’Ucraina, ma che avrebbe già ucciso oltre 30mila persone.

ALLA VIGILIA del summit del G20 che si terrà da sabato a Delhi – l’altro appuntamento di rilievo in Asia nei prossimi giorni – è ancora la Cina però a tenere banco. In entrambi i vertici.

A Giacarta perché quasi tutte le nazioni del sud est hanno un problema con Pechino. E a Delhi perché Xi Jinping non ci andrà, con uno schiaffo al padre padrone del Paese più popoloso del mondo con cui la Rpc è ai ferri corti.

Pechino ha pensato bene, settimana scorsa, di pubblicare sul sito web del ministero delle risorse naturali, una mappa che include alcune aree contese nello Stato indiano dell’Arunachal Pradesh e nell’altopiano dell’Aksai Chin, facendo infuriare Delhi.

Ma la mappa si appropriava anche di una parte del Mar Cinese meridionale, oggetto di contesa da Taiwan alla Malaysia, dal Vietnam alle Filippine fino al piccolo Brunei.

Una grana alla vigilia del vertice che mette i bastoni tra le ruote non solo all’idea del presidente indonesiano Joko “Jokowi” Widodo che vorrebbe fare dell’Asean l’«epicentro della crescita» asiatica, ma anche alla possibilità di far andare avanti il cosiddetto Asean Outlook on the Indo-Pacific (Aoip), firmato dal club a Bangkok nel 2019: vorrebbe essere un quadro «inclusivo» (quindi con Pechino) anche per rispondere al Quadrilateral Security Dialogue (Quad) – in chiave anticinese – tra Australia, Giappone, India e Usa.

USCIRE dalle sabbie mobili non è facile: in agenda c’è un incontro Asean-Cina (e giovedì Asean-India) che ha comunque già negoziato un Codice di condotta (Coc) nel Mar Cinese meridionale che la Rpc non sembra rispettare.

Anche sugli altri dossier – se si esclude quello più lineare di Timor Est – si va in salita. Il Myanmar innanzitutto e infine la conclusione del vertice asiatico cui presenzieranno anche partner stranieri che si guardano in cagnesco come Usa e Cina (né Biden né Xi però parteciperanno), elemento di seria preoccupazione nell’area.

Quanto alla giunta di Yangon, l’affondo è arrivato dal Paese al momento più progressista, insieme all’Indonesia, tra le nazioni Asean: «La Malaysia e altri Paesi membri hanno espresso il loro punto di vista secondo cui non possiamo permettere che ciò continui senza misure forti ed efficaci imposte alla giunta», ha detto il ministro degli esteri di Kuala Lumpur, Zambry Abdul Kadir, riferendosi al fallimento del Piano in cinque punti dell’Asean per risolvere la crisi birmana e su cui Zambry ha accusato i militari di creare continuamente ostacoli.

Ma il fronte non è unito. Malaysia, Indonesia, Singapore e Filippine sono i più duri. La stessa Timor Est minaccia di riconsiderare l’adesione all’Asean se le cose in Myanmar non cambieranno. Vietnam e Laos però fanno finta di nulla e la Cambogia fa l’occhiolino a Yangon.

MA IL NODO più indigesto è la Thailandia. Nel regno siamese, i militari l’hanno spuntata ancora e, seppur ridimensionati, tornano al governo. Inutile dire che un esecutivo di civili ed ex generali come quello che si sta insediando a Bangkok non avrà voglia di fare le pulci agli uomini in divisa al di là dei suoi confini occidentali.

Per ora dal summit è uscita solo la riaffermazione dei cinque punti mentre la rotazione della presidenza Asean nel 2026 non andrà a Yangon ma a Manila.