Mai come in questi ultimi mesi in tutti i paesi del mondo la ricerca scientifica è stata tanto protagonista e i responsabili politici e la società hanno reclamato certezze alla scienza. E mai come oggi la scienza è dovuta scendere dal piedistallo per gettarsi nella mischia, mostrandosi utile, indispensabile, certo, ma anche dubbiosa e limitata.

Il virus, assieme a sistemi sanitari ed economie, ha gettato per aria la nostra idea di una scienza perfetta, che fornisce risposte inequivocabili. E ha mostrato un prosaico dietro le quinte lontano dalla positivistica visione di un procedere di sicurezza in sicurezza verso un luminoso futuro, evidenziando invece inciampi, errori, interessi incrociati, e faticosi risultati provvisori.

Grazie alla giornalista Stephanie M. Lee, di BuzzFeed, conosciamo una storia emblematica che forse più di ogni altra racconta tutto questo.

Il protagonista, fra gli altri, è l’epidemiologo John Ioannidis dell’Università di Standford, diventato punto di riferimento nel 2005 di tutto un movimento mondiale per la “buona scienza”.

Un suo articolo, intitolato «Perché la maggior parte delle scoperte scientifiche pubblicate sono false» era diventato la bibbia di chi, armato di umiltà epistemica, chiedeva agli scienziati di affrontare il problema della«crisi della riproducibilità» (l’impossibilità di riprodurre risultati scientifici trovati da altri, un meccanismo alla base del metodo scientifico).

La scienza è una faccenda caotica, argomentava, a volte va nella direzione sbagliata perché gli scienziati per sopravvivere nel sistema devono trovare risultati nuovi e scintillanti, la cui significatività tendono a sopravvalutare, nuovi finanziamenti e conflitti di interesse (anche inconsapevoli), e non c’è spazio e tempo per gli ineluttabili vicoli ciechi e le intrinseche incertezze della realtà, che spesso richiedono molte prove ed errori.

Ioannidis, come altri, ha cercato di rispondere alla domanda: quante persone sono state davvero contagiate dal Covid-19? La risposta non è solo straordinariamente sfuggevole, ma è anche dove si evidenzia il reticolo complesso di interazioni fra scienza, società e politica.

Con 16 altri ricercatori e ricercatrici, Ioannidis ha analizzato il sangue di 3mila persone della contea californiana di Santa Clara per misurare il numero di entrati in contatto con il virus e quindi calcolare il tasso di mortalità reale, molto inferiore – su questo sono tutti d’accordo – al rapporto fra numero di vittime e numero di contagiati ufficiali, molti meno di quelli veri poiché molte persone presentano pochi o nessun sintomo.

In Spagna questa settimana uno studio nazionale ha calcolato un 5%, poco più alto che in Francia (4.4%). Dove sono disponibili, i dati vanno nella stessa direzione, sotto il 10%.

Il tasso di mortalità del virus è stimato attorno all’1%, dieci volte quello dell’influenza (in Spagna per esempio il calcolo dà l’1,2%). Probabilmente, anche il numero delle vittime reali sarà più elevato una volta che si contabilizzino quelle che per ora sono sfuggite ai conteggi ufficiali.

Ma lo studio di Ioannidis sosteneva che i contagiati sono molti di più e quindi la mortalità è molto più bassa, simile a quella dell’influenza. Il che, guarda caso, è in linea con chi crede che il lockdown non serva e vorrebbe riaprire l’economia.

La ricerca era solo un preprint, non ancora valutata da altri ricercatori e pubblicata, ma non importa: gli autori rilasciavano già interviste forti dei loro «risultati scientifici», immediatamente cavalcati dalle destre anti-lockdown.

Intanto ricevevano una valanga di critiche sia per aver usato male la statistica (una delle critiche che nel 2005 faceva lo stesso Ioannidis), sia per l’uso di test non affidabili. Tanto che hanno già in parte corretto il primo preprint.

Ma Lee nel suo articolo ha denunciato due problemi più gravi.

Il primo è che un anonimo whistleblower ha denunciato all’università di Stanford che uno dei finanziatori della ricerca, amico degli stessi ricercatori, è l’impresario David Neeleman, proprietario di alcune compagnie aeree e dichiarato difensore della riapertura dell’economia.

Il secondo è che lo stesso informatore ha fornito prove secondo cui altri ricercatori hanno cercato di dissuadere gli autori per l’inaffidabilità dei risultati dei test utilizzati, un problema che hanno tutti quelli che vorrebbero certificare se una persona è immune al virus.

Lui si difende: sue conclusioni sono basate solo sui dati, è solo uno scienziato.

Ma grazie a Lee, sappiamo che, nel migliore dei casi, Ioannidis è stato vittima dello stesso bias che lui stesso ha sempre denunciato.

E nel peggiore, che ha voluto consapevolmente regalare un’arma a chi sostiene che la reazione al coronavirus basata sulle evidenze è stata «un fiasco», come lui stesso ha argomentato in un editoriale pochi giorni prima di rendere pubblica la sua ricerca.

Mettere gli scienziati sotto i riflettori però è positivo: ne scopriremo limiti e contraddizioni, ma smitizzeremo la scienza. Rendendola migliore.