Ogni mattina alle 8, centinaia di richiedenti asilo africani escono dal Cara di Mineo, inforcano la bicicletta comprata per 25 euro all’interno dello stesso centro e si dirigono verso gli agrumeti nei quali sono impiegati al nero nella raccolta delle arance. Per la legge italiana non potrebbero lavorare perché il permesso di lavoro viene riconosciuto dopo sei mesi di permanenza in Italia, ma basta farsi un giro da quelle parti per capire quanto poco essa sia applicata e in che modo sia funzionale a creare l’ennesima situazione di sfruttamento del lavoro, al limite della schiavitù. Ai migranti dell’ex residenza destinata ai militari americani della vicina base di Sigonella che, con quattromila ospiti, è ormai uno dei centri per rifugiati più grandi d’Europa, è andata solo leggermente meglio che ai loro conterranei di Rosarno, pagati due centesimi per ogni chilogrammo di arance da succo raccolte e destinate. A loro sono andati mediamente sette centesimi, ma la cattiva stagione passata ha fatto sì che anche le arance rosse di Sicilia finissero nel circuito della trasformazione e non, pagate meglio, come agrume da tavola.

La Cgil denuncia come il fenomeno del lavoro nero dei rifugiati sia in corso almeno da un anno, ma nel 2016 ha assunto dimensioni massicce. Soprattutto, avviene alla luce del sole. Ogni mattina, dopo che la polizia ha aperto i cancelli del Residence degli aranci, come paradossalmente è stato chiamato il villaggio. Gli africani si fermano gruppetti, con le loro biciclette ammassate sui selciati, agli incroci delle strade, in attesa che qualche produttore locale venga a prenderli per portarli nei campi, e non è detto che ciò accada. I più esperti raggiungono direttamente i campi della raccolta. La particolarità è che, a differenza che nella Piana di Gioia Tauro o in altri luoghi dello sfruttamento dei braccianti in agricoltura, qui non ci sono caporali ma tutto avviene senza intermediari, in maniera diretta.

Un guineano sbarcato in Sicilia quattro mesi fa ha raccontato ai ricercatori di Filiera sporca che “non si sta male qui, però non abbiamo soldi, ci danno solo sigarette ma io non fumo, perciò sto andando a cercare lavoro». Un’altra testimonianza raccolta è quella di un venticinquenne proveniente dal Gambia: «Lavoriamo dalle 8 di mattina alle 4 del pomeriggio, ci danno da bere e qualcosa da mangiare durante il giorno e a fine giornata ci pagano 10, massimo 15 euro». Paghe da fame e condizioni di lavoro schiavistiche al soldo dei produttori italiani della zona, che poi rivendono gli agrumi alle multinazionali che li trasformano in succhi o alle grandi catene di supermercati, denuncia la Flai Cgil, per la quale «i produttori lamentano il prezzo eccessivamente basso del prodotto, ma in questo modo è l’intera economia locale a essere danneggiata, con un dumping che spinge sempre più giù le condizioni di lavoro e contribuisce a sua volta ad abbassare i prezzi». Una spirale al ribasso che scarica tutti i costi sull’ultima ruota del carro: i lavoratori. La frammentazione della filiera non aiuta: gli autori del dossier hanno interpellato cooperative di produttori, aziende di trasformazione e catene di supermercati, e lo scaricabarile è stato generale. Quello che emerge è solo la difficoltà di controllare realmente da chi siano state raccolte le arance, nonostante garanzie e rassicurazioni.

Eppure, il fenomeno è noto a tutti: ad aprile scorso i Carabinieri del Nucleo Ispettorato del lavoro di Catania hanno scoperto e deferito all’autorità giudiziaria tre imprenditori agricoli della provincia di Catania che avevano preso al nero come braccianti 45 lavoratori stranieri, di cui 14 richiedenti asilo politico ospiti del Cara di Mineo. Il responsabile commerciale di un’azienda di trasformazione ha confermato: «Lo sanno tutti coloro che abitano nei nostri territori che la raccolta delle arance è fatta sempre più da personale estero con una paga inferiore al prezzo di tariffa creando concorrenza alla manodopera locale e inficiando la regolare concorrenza tra aziende». Il prezzo basso è un indicatore che a monte c’è qualcosa che non va. Dunque, occhio al prezzo.