Il ministro degli Esteri Di Maio aveva già lasciato la Libia quando è partito il fuoco incrociato di narrazioni belliche tra i due principali protagonisti della guerra civile: il governo del premier Sarraj, quello tripolino sponsorizzato dall’Onu, accusava l’esercito di Haftar, assediante della capitale, di aver volontariamente colpito case civili nel quartiere residenziale di Salah al Din perché non riesce ad avanzare sul terreno; gli uomini di Bengasi hanno risposto che no, loro stanno avanzando sulla strada dell’aeroporto a sud di Tripoli.

Si combatte ancora, nonostante – e ovviamente – la visita del capo della Farnesina. Di Maio è tornato con poco in mano se non rassicurazioni di facciata su migranti e pace. «Disponibilità», questo ha detto di aver ottenuto sia da Tripoli che da Bengasi. Eppure i tripolini all’Italia devono molto, a partire dai soldi con cui la Guardia costiera libica tiene i richiedenti asilo in campi di concentramento.

Su questo fronte il ministro 5S, ieri durante un’interrogazione alla Camera, ha detto di avere «l’ampia disponibilità» di Sarraj a modificare il «memorandum d’intesa» in materia di migranti, quello da rivedere, datato 2017.

«È nostro interesse mantenerla operativa – ha continuato Di Maio – migliorandola, consapevoli dei limiti emersi in questi anni nella gestione dei campi. Abbiamo chiesto ai libici di lavorare assieme su una serie di aspetti per migliorare le condizioni nei centri di detenzione ufficiali, anche attraverso il coinvolgimento di Unhcr e Oim».

Non andava firmato, andava stracciato, e invece è ancora lì in attesa di «migliorie». E per rientrare dalla finestra della “gestione” della crisi libica da cui Roma è stata allontanata, il ministro ha parlato dell’intenzione di istituire «un inviato speciale per la Libia, che farà capo al ministero degli Esteri, con il compito di mantenere una costante interlocuzione di alto livello politico con i diversi attori libici».

Inviato speciale più missione europea: «Contatterò i principali interlocutori internazionali per condividere gli esiti della missione e pianificare congiuntamente i prossimi passi da compiere».

Ma lontano da Di Maio e le sue missioni c’è chi si muove ormai alla luce del sole, senza remore. Ieri il presidente egiziano al-Sisi ha parlato al telefono con il premier britannico Johnson e quello francese Macron con il russo Putin: tutti si sono detti concordi a risolvere il polverone con mezzi diplomatici.

Mosca, però, agisce e continua a inviare mercenari wagneriani tra le fila di Haftar. Che fanno infuriare la Turchia: ieri il presidente Erdogan ha fatto sapere che entro la prossima settimana manderà una delegazione a Mosca per discutere di Libia. Per poi tornare a insistere: se Tripoli vuole, Ankara è pronta a mandare truppe (non da combattimento, ma per «supporto militare», dicono fonti interne) contro Haftar, al fianco di droni già operativi.

Secondo il quotidiano turco Yeni Shafak, la Turchia sarebbe prossima ad aprire una base militare in Libia, approvata lunedì dalla Commissione Esteri del parlamento. Sarraj la aspetta a braccia aperte e lo fa dire al suo ministro dell’Interno, Fathi Bashagha, citato dal Libya Observer: chiederemo quelle truppe se l’intervento internazionale a supporto di Haftar continuerà. Che guerra regionale sia.