La «giornata della rabbia» – la chiamata a raccolta dopo la strage all’Al-Ahli Arab Hospital a Gaza – ha visto un immenso numero di persone nelle strade arabe, quelle giordane, egiziane, tunisine, irachene, iraniane, marocchine, libiche, yemenite, turche e libanesi, oltre che in Cisgiordania. Le situazioni più critiche ad Amman, Tunisi, Istanbul e Beirut.

IERI È STATO il secondo giorno di proteste: già martedì sera, in seguito alle scioccanti immagini provenienti da Gaza, si erano radunate migliaia di persone per esprimere cordoglio e solidarietà ai palestinesi. Le ambasciate straniere – soprattutto quelle statunitensi, francesi e israeliane – sono state prese di mira, perché percepite come simbolo dell’appoggio incondizionato a Israele. Sono scoppiati scontri con la polizia, che ha disperso le migliaia di manifestanti con lacrimogeni e idranti ad Amman martedì sera e di nuovo ieri fuori dall’ambasciata israeliana e da quella statunitense. I partiti islamici hanno spinto per uno sciopero generale e il governo ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale.

La presenza palestinese in Giordania è attestata attorno ai tre milioni di persone su 12, di cui però un’amplissima parte vanta radici palestinesi: rifugiati del 1948 diventati cittadini giordani. L’immediata conseguenza della strage è stata l’annullamento dell’incontro tra Biden e il re di Giordania Abdallah II. A Tunisi i manifestanti fuori dall’ambasciata francese e a quella degli Stati uniti hanno gridato slogan in supporto dei palestinesi e contro «i francesi e gli americani alleati dei sionisti». Proteste all’ambasciata di Israele in Turchia dove i manifestanti hanno bruciato bandiere statunitensi e israeliane e dove si sono registrati scontri con l’esercito. Quello libanese è però certamente il polo più caldo.

AL CONFINE a sud si combatte da dieci giorni e l’allarme è altissimo, con rivendicazioni di attacchi, ferimenti e uccisioni sia nell’esercito israeliano che in Hezbollah. I civili da entrambi i lati hanno dovuto evacuare i villaggi a ridosso della Linea Blu che separa i paesi e che Unifil, forza Onu di interposizione, stenta a controllare.
Qualche centinaio di persone martedì sera e circa duemila ieri hanno manifestato violentemente fuori dall’ambasciata Usa a Awkar, a una decina di chilometri da Beirut. Dispersi con idranti e lacrimogeni, alcuni manifestanti sono rimasti feriti negli scontri. All’ambasciata francese martedì sera ore di proteste e lanci di pietre all’ingresso principale. Il cospicuo schieramento di forze dell’ordine si è limitato però ai cordoni di sicurezza. Bandiere di Amal e Hezbollah, oltre a quelle palestinesi, hanno accompagnato i caroselli di motorini e auto fino a notte fonda in tutta la città.

IERI HA PROTESTATO anche il personale medico degli ospedali di Halba, Akkar, Qobayat e lo stesso premier Mikati ha preso parte a un sit-in davanti al ministero della salute. Manifestazioni spontanee o organizzate si sono svolte nei dodici campi palestinesi sparsi in tutto il paese e nelle roccaforti sciite come Nabatiyyeh e in città sunnite come Saida. Scuole e università chiuse: ieri è stata una giornata di lutto nazionale in Libano. Un’altra manifestazione non violenta si è tenuta sempre ieri davanti all’ambasciata tedesca. L’attacco all’ospedale costituisce un’ulteriore svolta nella percezione del conflitto e nel conflitto stesso. Le migliaia di persone in strada in supporto della Palestina rappresentano un freno dal basso al processo di normalizzazione che Israele aveva intrapreso con la maggior parte dei governi arabi. Se dall’alto la questione palestinese era stata in qualche modo congelata, quello che sta avvenendo nelle strade, oltre a essere una condanna dell’occupazione israeliana, risuona come un monito per i governi arabi che questi processi di normalizzazione li avevano sottoscritti o avallati, una richiesta di un cambio di paradigma.

INTANTO A BEIRUT è un continuo rumore di elicotteri e sirene di volanti della polizia. Gli arrivi in Libano sono altamente sconsigliati. Alcune ong rimpatriano i lavoratori non necessari. Riyadh ha chiesto ai cittadini sauditi di lasciare il paese.
Ufficializzare una guerra contro il Libano vorrebbe dire cambiare il volto del conflitto e ampliarlo a tutta la regione. Il 17 ottobre, quarto anniversario della thaura libanese, la rivoluzione, arriva in un clima di tensione altissima. È la data che aveva segnato lo scoppio di una rivolta contro l’intero sistema politico libanese corrotto e nepotista, ma anche l’inizio di un’inesorabile discesa in una crisi economica e sociale da cui il paese è tutt’altro che uscito, potrebbe marcare ora l’inizio di un nuovo drammatico corso di eventi.