L’Italia «c’è» in Libia ma «deve recuperare il terreno perso» nei mesi scorsi. A dirlo è stata la vice ministra degli Esteri, Marina Sereni, intervenendo ieri a un convegno sulla Libia alla Camera dei Deputati.

Nel tentativo di farlo, a distanza di quasi un anno dall’ultima visita ufficiale, l’Italia ha mandato ieri in missione diplomatica il ministro degli Esteri Di Maio. Una visita importante perché il titolare della Farnesina ha incontrato tutti i principali protagonisti della crisi libica.

È stato prima a Tripoli dove ha incontrato il suo omologo Siyala e il premier Sarraj del Governo di accordo nazionale (Gna) di cui Roma è il principale sponsor. Poi si è spostato a Bengasi dove ha avuto un incontro con l’uomo forte della Cirenaica, il comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna), Khalifa Haftar, che da aprile assedia la capitale Tripoli con l’obiettivo di sconfiggere le milizie «terroriste» (si legga Fratellanza musulmana) che sostengono il Gna. Infine, come ultima tappa, Di Maio si è recato a Tobruk dove ha visto Aguilah Saleh, il presidente della Camera dei rappresentanti, ovvero il Parlamento rivale di Tripoli.

Quattro i punti al centro dei suoi incontri: la situazione del conflitto civile nel paese nordafricano che negli ultimi giorni registra una pericolosa escalation; la conferenza di Berlino il prossimo mese che dovrebbe portare di nuovo le parti libiche a negoziare un’intesa; il controverso memorandum d’intesa firmato lo scorso 27 novembre dal presidente turco Erdogan e al-Sarraj, duramente criticato sia da Haftar che dalla Ue (Italia compresa).

Con gli alleati tripolitani, in realtà, si è discusso anche di apportare dei «correttivi» ai memorandum d’intesa sull’immigrazione siglati tra Italia e Tripoli: Roma chiede un «maggiore coinvolgimento delle agenzie internazionale come Unhcr e Oim» e la formazione specifica in materia di diritti umani delle autorità libiche.

Sul suo account Facebook ieri il Gna ha elogiato il sostegno dell’Italia a Tripoli. La realtà è però più complessa. A molti nella capitale libica non è andata giù la critica del governo Conte ai memorandum d’intesa marittimi e di sicurezza firmati con Ankara. Intervistato dall’Adnkronos, l’ex consigliere dell’Alto Consiglio di Stato Ashraf Shah è stato chiaro: «Da Roma arrivano segnali confusi». E non ha tutti torti.

In un paese alla deriva come è quello libico, le alleanze sono ballerine: e così anche Haftar – l’uomo della Francia, il generale che più volte si è fatto beffa dell’Italia – viene guardato da Roma con occhi diversi. Ora che pare avvantaggiato nella «battaglia decisiva» per la conquista di Tripoli grazie al sostegno esterno (soprattutto russo).

Nella partita della diplomazia, c’è poi la realtà della guerra. Le città della Tripolitania hanno annunciato contemporaneamente l’entrata in vigore dello stato d’emergenza e l’invio di rinforzi militari per partecipare alla battaglia di Tripoli contro le forze di Haftar, replicando quanto ha fatto domenica sera un gruppo di leader nella «città-Stato» libica di Misurata.

Haftar, intanto, secondo Taha Hadid, portavoce della «Forza di protezione» filo-governativa di Sirte, starebbe ammassando nella città costiera «mercenari stranieri» da impiegare nella guerra per la capitale. A Sirte la tensione è alta: droni degli Emirati arabi hanno ucciso ieri un uomo e ferito tre membri di forze fedeli al Gna.

Ma è nella capitale che si gioca la partita principale. Khalid al-Mishri, capo del Consiglio di Stato di Tripoli (Gna), ha fatto sapere che le condizioni sul campo sono ancora a loro favore e che difenderanno «la rivoluzione di febbraio con più alleanze internazionali».