Cucchi, il generale Tomasone sotto torchio al processo bis
Roma La testimonianza dell’allora comandante provinciale dell’Arma diventa un caso. Il pm Musarò deposita una nota in cui il generale anticipava di sei mesi le conclusioni a cui dovevano arrivare i periti legali, non ancora nominati. Perizie poi risultate errate.
Roma La testimonianza dell’allora comandante provinciale dell’Arma diventa un caso. Il pm Musarò deposita una nota in cui il generale anticipava di sei mesi le conclusioni a cui dovevano arrivare i periti legali, non ancora nominati. Perizie poi risultate errate.
È un faldone alto venti centimetri, quello dal quale il pm Giovanni Musarò estrae uno dei documenti più significativi che ha appena depositato alla prima Corte d’Assise di Roma, dove si svolge il processo bis per la morte di Stefano Cucchi, inerenti l’indagine integrativa sul depistaggio.
«In atti interni dell’Arma dei carabinieri che risalgono al periodo compreso tra l’ottobre e l’inizio novembre del 2009 compaiono già le conclusioni a cui sarebbero giunti i medici legali nominati dalla Procura sei mesi dopo e che indicavano come responsabili del decesso solo i medici», scandisce il magistrato che, malgrado la sua lunga esperienza nel contrasto alle mafie e una vita sotto scorta, non nasconde lo «sconcerto» per «l’estrema gravità di quanto accertato». Perché, aggiunge, «si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia» e soprattutto perché «qui ormai non c’è solo in gioco la legittima richiesta di giustizia per la morte di Stefano Cucchi, ma la credibilità di un intero sistema».
È IL 1° NOVEMBRE 2009, due giorni dopo la riunione al vertice tipo «alcolisti anonimi» (così la definì il luogotenente Colombo Labriola, indagato) convocata dall’allora Comandante provinciale dell’Arma «per ricostruire le fasi dell’arresto» di Stefano Cucchi, quando il generale Vittorio Tomasone, oggi al vertice del comando interregionale “Ogaden” di Napoli, invia al comando generale e ad altri uffici competenti una nota nella quale descrive a quali conclusioni dovrebbe arrivare e su cosa dovrebbe lavorare il collegio peritale che sarà nominato solo il giorno dopo per affiancare il professor Tancredi nell’analisi autoptica del corpo del giovane geometra romano.
«Le cause del decesso non sembrerebbero attribuite a traumi», scrive Tomasone, «non essendo state rilevate emorragie interne, né segni macroscopici di percosse»; la frattura vertebrale e sul cocige è «riferita ad un periodo significativamente antecedente all’arresto (30 settembre u.s., come dichiarato dalla stesso Cucchi ai medici del Pertini)» e la presenza di sangue nello stomaco e nella vescica sarebbe «secondo specialisti riconducibile ad una patologia epatica e renale di cui il soggetto era già sofferente». Perciò, conclude il generale, i medici patologi dovranno «verificare meticolosamente tutti i trattamenti clinici a cui il soggetto è stato sottoposto» dopo il suo arresto e prima della sua morte.
NON ESSENDO INDAGATO, Tomasone è stato convocato come testimone dall’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi. Ma ieri ha faticato non poco per uscire a testa alta, e mantenere inalterata la sua reputazione di buon investigatore, dall’interrogatorio cui è stato sottoposto durante l’udienza. In particolare quando, incalzato dal pm Musarò, non ha saputo spiegare come facesse ad arrivare a certe conclusioni nella nota del 1° novembre, quando lo stesso prof. Tancredi, che aveva eseguito l’autopsia il 23 ottobre, ancora il 6 novembre comunicava di non essere in grado di definire le cause di morte di Cucchi e per questo chiedeva altri consulenti. Inoltre, fa notare la pubblica accusa, «il 26 novembre 2009 lei ha ricevuto un fax con il referto del pronto soccorso dell’ospedale Vannini, dove si era recato Cucchi il 30 settembre 2009, che escludeva una frattura recente».
EPPURE TOMASONE assicura di non aver mai nutrito dubbi sulla «normalità» dell’arresto di Cucchi, «tutto portava ad escludere qualunque coinvolgimento diretto dei carabinieri nella morte del geometra». Aveva indetto la riunione del 30 ottobre, dice, «per accertare quanto accaduto il più presto possibile», visto che ormai il caso era diventato pubblico, e per «guardare in faccia» tutti i militari che avevano avuto un ruolo nell’arresto del giovane «in modo da vedere se dicevano la verità». Evidentemente il fiuto deve aver fatto cilecca, in quel frangente, perché il generale non trovò nulla di strano, neppure per il fatto che mancasse il fotosegnalamento (Cucchi fu portato appositamente nella caserma Casilina, dove poi avvenne il pestaggio, ma il registro dei fotosegnalamenti venne sbianchettato, come hanno appurato gli inquirenti, e il suo nome sostituito con il successivo arrestato).
Però, assicura il generale, «ho voluto ascoltare personalmente la telefonata fatta dalla caserma di Tor Sapienza per chiamare l’ambulanza» durante la notte, quando Stefano iniziò a stare male. Ma della mancanza del fotosegnalamento che le norme impongono e che comunque avrebbe mostrato le condizioni del volto dell’arrestato, nessuno dei cinque comandanti (tra cui anche il generale Alessandro Casarsa, oggi indagato per falso) e dei diversi carabinieri partecipanti alla riunione si preoccupò.
«NON AVEVO MOTIVO di sospettare qualcosa», assicura Tomasone. Eppure la pulce nell’orecchio gli era arrivata, perché il 24 ottobre i presidenti di «A buon diritto», Luigi Manconi, e di Antigone, Patrizio Gonnella, diffusero un comunicato stampa per denunciare che Stefano al momento dell’arresto stava bene mentre durante l’udienza davanti al gip si mostrava sofferente e riportava vistosi segni sul volto. «Sì, ricordo di averlo letto», ammette il generale. E infatti il 26 ottobre dal Comando regionale gli avevano inviato un fax con il testo della relativa agenzia Ansa.
È da quel giorno, secondo l’accusa, che inizia l’attività di depistaggio interna all’Arma. «Da allora iniziano a pullulare richieste di annotazioni su ordine della scala gerarchica, comprese quelle false e quelle dettate», ricostruisce il pm Musarò. Annotazioni che servivano per redigere un appunto per l’allora ministro di Giustizia Alfano che avrebbe dovuto rispondere due giorni dopo al question time alla Camera. «Il ministro – conclude il magistrato – per paradosso, si limitò a riferire il falso su atti falsi».
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