La giuria di ventotto giovani, presieduta da Samira Makhmalbaf ha decretato il vincitore tra i film in concorso alle Giornate degli autori: Candelaria di Jhonny Hendrix Hinestroza. Un racconto struggente, malinconico, sfacciato con due protagonisti ultraottantenni e magistrali. Lei è Veronica Lynn, lui Alden Knight. Non bisogna lasciarsi fuorviare dai cognomi dal sapore anglosassone, sono cubani. Sì, perché la storia ci porta a Cuba, precisamente nell’agosto del 1994. Da poco i regimi comunisti si sono dissolti in Europa, quindi a Fidel viene a mancare ogni sostegno, il tutto mentre continua l’embargo statunitense, l’odioso bloqueo.

L’isola e l’Avana sono davvero in crisi, la povertà è ampiamente diffusa, non si sa se «morire di nostalgia o di fame» dice uno dei protagonisti. Ma Fidel è incrollabile, alla radio ribadisce che non ci saranno concessioni politiche per far cessare l’embargo. Lì vivono miseramente i due protagonisti. Candelaria è bianca, lavora ancora nella lavanderia di un hotel e si esibisce modestamente in un bar con pochi turisti, Victor Hugo è nero, lavora in una fabbrica di sigari e talvolta riesce a venderne qualcuno al mercato nero.

Il loro amore è incrollabile. Non hanno nulla, ma non partecipano al maleconazo (il 5 agosto 1994), la forte protesta antigovernativa seguita all’intercettazione da parte delle autorità di barche dirette negli Stati uniti senza autorizzazione. Vi partecipano molte persone, cui risponde prontamente l’intervento della polizia che compie arresti, mentre il regime indice poi una prepotente contromanifestazione. Tutto questo è sullo sfondo, solo accennato, mentre noi assistiamo ai tentativi di sopravvivenza della coppia, con un sussulto quando una telecamera irrompe improvvisamente nella loro vita e potrebbe cambiargliela perché i turisti amano l’eccesso e sono disposti a pagare per quei vecchietti che si riprendono mentre fanno sesso.

Jhonny Hendrix Hinestroza (regista colombiano) almeno nel nome è perfettamente in linea con il suo personaggio maschile, ma ha soprattutto il merito di cogliere la sensibilità di un rapporto che potrebbe essersi dissolto da tempo ma che è invece un valore assoluto, come quelli che rivendica Fidel quando la sua voce ricorda come Cuba abbia il maggior numero di medici per abitante al mondo e invita i giovani a studiare.

Due vecchietti, Candelaria e Victor Hugo, non esenti da malattie, che affrontano la miseria con una dignità e una vitalità insospettabile che questo racconto riescono a restituire con delicatezza su scenari di muri scrostati e oceani da cartolina.

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E per rimanere sempre alla Giornate degli Autori e sempre in ambito esotico ecco la Thailandia di Samui Song, regia di Pen-ek Ratanaruang, regista che si è un po’ smarrito dopo alcune prove interessanti. Questa volta inizia come un noir canonico, con venature melo e splatter: una moglie attrice di soap opera, un marito occidentale ormai impotente, adepto di una stravagante setta buddista, disposto a offrire le di lei grazie al suo guru, che accetta di buon grado. Lei deve avere visto Hitchcock (La fiamma del peccato), recluta un killer conosciuto in ospedale per rimanere vedova, e qui siamo in ambito Coen (Fargo) o Kasdan (Ti amerò fino ad ammazzarti), questi infatti prima perde la pistola e la sorpresa, poi cerca di portare a termine il lavoro colpendo ripetutamente in testa il tontolone con una scultura a forma di fallo (Comencini? La Donna della domenica?). Naturalmente nulla va per il verso giusto, le complicazioni si sommano, comprese squadrette armate di killer che arrivano ovunque.

Sino alla sorpresa di ritrovare la nostra eroina a Koh Samui con tanto di bimba e amore lesbico. Lei ha cambiato aspetto, ma questa è solo una delle (troppe) sorprese della parte finale che sovrappone cinema, metacinema, soap opera e quant’altro. Insomma, qui l’amore sembrerebbe proprio bandito, restano solo frattaglie che fanno anche parte della canzone pop che il guru preferisce alla musica classica.