Mosca non è mai stata così lontana dall’Armenia nell’ultimo secolo. Ieri il parlamento armeno ha ratificato lo Statuto di Roma sulla Corte Penale Internazionale e ora se il presidente russo Vladimir Putin entrasse nel territorio armeno le autorità locali potrebbero anche arrestarlo. E mentre il governo di Nikol Pashinyan è alle prese con la tragedia umanitaria generata dagli sfollati del Nagorno-Karabakh, lo spettro della crisi economica incombe.

«UNA DECISIONE SBAGLIATA» l’ha definita Dmitry Peskov, il portavoce del Cremlino. D’altronde le avvisaglie del mancato gradimento di Mosca rispetto alle indiscrezioni sull’ingresso dell’Armenia nello Statuto di Roma non erano mancate.

«Se l’Armenia dovesse ratificare lo Statuto di Roma sarebbe un atto estremamente ostile nei nostri confronti» aveva dichiarato alla fine della scorsa settimana il ministro degli Esteri russo Lavrov, che poi si era spinto fino a definire l’amministrazione di Pashinyan «governo temporaneo». Come se si trattasse di una parentesi o, peggio, di un potere prossimo alla caduta. Per mano di chi, non ci è dato saperlo, ma la frase in questione, pronunciata senza troppa enfasi, aveva tutto il sapore di un monito.

Così come le parole di ieri del presidente della Duma, Vyacheslav Volodin: «È una decisione mal concepita e strategicamente scorretta che creerà innanzitutto problemi all’Armenia e ai suoi cittadini». Peskov da Mosca aveva anche aggiunto che «la cooperazione con la Russia e il Trattato di Sicurezza Collettivo garantisce pienamente la sicurezza dell’Armenia», ma il punto è proprio questo.

Se Pashinyan può mostrarsi irremovibile e permettersi il tentativo di scaricare la Russia in fretta e in modo eclatante è perché la cacciata degli armeni dal Nagorno-Karabakh brucia enormemente tra i suoi concittadini. Inoltre la Cpi può aiutare l’Armenia a tentare di perseguire i soldati azeri colpevoli di crimini di guerra durante questi mesi di embargo sfociati nell’ultima azione militare di Baku.

E se Pashinyan ha davvero intenzione di tentare il grande passo verso Occidente, approfittando delle accuse di «tradimento» alla Russia di buona parte dell’opinione pubblica armena, è questo il suo momento. In tal senso dalla Francia è giunto un assist insperato: il ministero degli Esteri di Parigi si è detto pronto a fornire armi a Erevan e ha proposto di inviare osservatori dell’Ue nel Paese.

Ma Pashinyan deve anche pensare all’accoglienza degli oltre 100 mila sfollati arrivati nel corso di una sola settimana dalla moribonda Repubblica dell’Artsakh. Come far fronte alla svalutazione del Dram che dalla settimana scorsa si è svalutato di 50 punti rispetto alle monete principali (passando da 385 dram per 1 dollaro a 435) e toccando già i 450 presso due istituti bancari; già oggi il cambio potrebbe arrivare alla cifra record di 520. Il che comporterebbe uno squilibrio enorme nella già fragile economia armena che negli ultimi due anni era riuscita a risollevarsi grazie alle triangolazioni di import-export usate dalla Russia per alleviare il peso delle sanzioni.

Alla frontiera tra Georgia e Russia di Lars, attraverso la quale passano i beni di Erevan diretti nel gigante eurasiatico in questo momento ci sono 60 camion del famoso brandy Ararat, famoso in tutti i Paesi ex sovietici, bloccati da ore per «controlli». Altri mezzi carichi di beni da esportazione stanno subendo la stessa sorte.

Intanto in Nagorno-Karabakh, gli ex presidenti indipendentisti Arkady Ghukasyan e Bako Sahakyan e Arayik Harutyunyan, insieme all’attuale presidente Shahramayan sarebbero stati arrestati dalle autorità azere, che hanno però nominato un armeno come reggente del comune di Stepanakert, l’ex-capitale.