L’appuntamento di Charlottesville era stato lanciato da tempo e, fin dal titolo scelto, «Unite the Right», Unire la destra, annunciava che si sarebbe trattato di uno spartiacque. Il possibile punto di partenza di un nuovo movimento in grado di mettere gli uni accanto agli altri i neonazisti, gli eredi del Ku Klux Klan e gli aderenti a quel circuito della alt-right e della destra identitaria, che trae ispirazione dalla nouvelle droite europea e dal differenzialismo reazionario, cresciuta in visibilità intorno alla figura di Donald Trump.

Le violenze diffuse e l’uccisione di una manifestante antirazzisti non devono far dimenticare che l’obiettivo del raduno era sì anche quello di offrire una brutale prova di forza, ma era e resta prima di tutto politico: trasformare in qualcosa di stabile quella mobilitazione permanente delle diverse anime della destra radicale che non ha smesso di realizzarsi nel corso degli ultimi due anni proprio a sostegno di The Donald.

All’indomani dei fatti di Charlottesville, storici e studiosi si interrogano perciò soprattutto sul ruolo che tali tendenze vanno assumendo ancora una volta nella fase di crisi politica e sociale degli Stati Uniti.

«Ciò che è accaduto in Virginia racconta uno dei volti della realtà sociale dell’America di oggi. Questi giovani che sfilano per esprimere la loro “fierezza di essere bianchi”, che si definiscono di estrema destra o come aderenti alla alt-right, indicano in realtà soprattutto la loro frustrazione di fronte a una realtà profondamente multiculturale, come è quella del nostro paese», spiega lo storico David Billings che lo scorso anno ha pubblicato un saggio di grande interesse dedicato proprio a questo tema: Deep Denial, The Persistence of White Supremacy in United States History and Life.

«All’origine di questo modo di pensare, più radicato di quanto siamo pronti ad ammettere noi stessi – aggiunge lo studioso, nato nel 1946 in Mississippi e a lungo attivo nel movimento per i diritti civili -, si possono evocare temi significativi che hanno a che fare con la situazione economica, il declassamento di una parte del ceto medio bianco e via dicendo. Ma personalmente credo che la radice più profonda di tutto ciò vada ricercata nella paura che la nazione americana non favorisca più i bianchi, cosa per altro non vera visto che sono proprio costoro ad avere ancora gli stipendi medi e i titoli di studio più alti rispetto agli appartenenti alle minoranze. Eppure, è questa frustrazione quanto al proprio ruolo, o meglio al ruolo che il colore della propria pelle dovrebbe tributargli, abilmente alimentata dai media di destra e dal circuito dell’alt-right, che fanno passare i bianchi per vittime, che produce un risentimento crescente e una volontà di vendetta pronta a trasformarsi anche in violenza».

Non a caso, questa visione paranoica è cresciuta durante gli anni della presidenza Obama, e sta conoscendo proprio una sorta di vendetta attraverso l’affermazione di Trump.
In questo senso, sottolinea Brian Levin, docente dell’Università della California di San Bernardino e responsabile del locale Center for the Study of Hate and Extremism, «Trump ha per certi versi risvegliato il gigante addormentato dell’America bianca. Prima di lui le diverse formazioni dell’estrema destra, spesso in lotta tra loro, non si sarebbero mai unite per sostenere un candidato comune, né tantomeno per lanciare un progetto di unità strategica sul larga scala». Si tratta, aggiunge Levin, di formazioni che in alcuni casi esistono da anni, ma «cui mancava una celebrità carismatica che gli disse l’idea di riunirsi e di proporsi così all’opinione pubblica. Trump ha per certi versi aperto loro il campo della politica mainstream e ciò che sta accadendo né una delle più pericolose conseguenze».

Se a questo si aggiunge, come ha fatto il presidente del maggiore istituto di documentazione sulla destra radicale del paese, il Southern Poverty Law Center dell’Alabama, Richard Cohen, la considerazione che buona parte dei leader dei gruppi che hanno lanciato l’appello per la manifestazione di Charlottesville hanno tra i 30 e i 40 anni, rappresentano cioè a tutti gli effetti una nuova leva di dirigenti del «nazionalismo bianco» è chiaro che «questa minaccia pesa sul futuro stesso della nazione».