Marzahn Foto di Pasquale Liguori

Da napoletano il primo impatto con il «Serpentone» è stato un po’ spiazzante: «Mi aspettavo un crogiolo di traffici e persone, come a Scampia. E invece a Corviale c’è un silenzio incredibile, quasi spettrale. Ma è come la cenere sopra la brace». ImpAsse Roma-Berlino è l’ultimo lavoro del fotografo urbano Pasquale Liguori (autore di BorGate), un volume che sta per essere pubblicato per i tipi di Ponte Sisto e che ambisce a mettere in relazione due quartieri periferici “difficili” delle due capitali europee. Un lavoro che ha aperto la strada ad un possibile futuro gemellaggio tra Corviale e Marzahn NordWest.

Lei scrive di voler evitare un improbabile parallelo frontale tra Corviale e Marzahn. Perché li ha scelti, quali similitudini ha trovato?
La mia fotografia non si presta a essere contemplata, non vuole solo denunciare il degrado e il disagio ma far scaturire riflessioni e azioni, mettere in dialogo i protagonisti di queste aree svantaggiate. Corviale e Marzahn sono contemporanei, nati tra gli anni ’70 e ’80, costruiti con tecniche edilizie architettoniche simili: cantieri a secco con moduli prefabbricati. Sia pure in contesti politici e sociali differenti, avevano finalità comuni, perché dovevano rispondere ad una richiesta abitativa molto pressante. Entrambi i progetti erano molto ambiziosi. A Corviale l’edificio-quartiere lungo quasi un chilometro era stato progettato dall’architetto Mario Fiorentino sul filo del razionalismo, ispirato alle unité d’habitation marsigliesi di Le Corbusier. Un progetto di public housing che voleva porre un argine all’abusivismo edilizio che fagocitava la campagna dell’agro romano, visto che un terzo del suolo residenziale di Roma è di origine abusiva. Anche Marzahn è stato un record europeo: è il distretto urbano popolare più velocemente edificato in Europa continentale, dove in 15 anni la Rdt ha dato casa a 250 mila persone dell’allora Berlino est. E sono accomunati anche da un forte declino. Corviale perché è stato amministrato male: lasciato senza servizi e senza trasporti, si è trasformato in un corpo estraneo alla città, fonte di esclusione e abbrutimento. Il quarto piano che era destinato a servizi, negozi e atelier, e avrebbe dovuto essere un po’ il boulevard di questo edificio, rimase vuoto mentre si allocavano le abitazioni, e con la fame di case che c’era inevitabilmente finì per essere occupato. Lì ci vivono addirittura persone che sono n.n., cioè sconosciute perfino all’anagrafe. Marzahn invece non era periferico a Berlino est, c’erano servizi e trasporti, era molto ambito all’epoca della Rdt. Dava casa agli operai e alle giovani famiglie, quindi c’erano molti servizi per l’infanzia e scuole. Di notte una donna poteva passeggiare tranquillamente da sola…

Dunque all’inizio Marzahn aveva tutto ciò che non aveva Corviale. Poi?
Dopo la caduta del muro ci fu un esodo di massa verso Berlino ovest, la zona si spopolò, il costo degli affitti dei Plattenbau (edifici a pannello, ndr) crollò e nel quartiere arrivò un’enclave molto numerosa di tedeschi che prima abitavano nell’ex Urss, circa 25 mila persone. Fu il declino sociale: è diventata la zona con il più alto tasso di disoccupazione di Berlino; circa il 15% della popolazione usufruisce dell’Hartz IV, il sussidio sociale introdotto nel 2005 da Schröder. In seguito sono arrivati anche i profughi delle guerre mediorientali, rifugiati che vivono nei centri d’accoglienza disseminati nel territorio di Marzahn. E così, insieme al 40% dei residenti storici, vive oggi una maggioranza che non ha alcun legame e contatto con il territorio. Le problematiche conseguenti sono evidenti: forte alcolismo, dispersione scolastica, ecc. In questo contesto hanno cominciato ad attecchire i primi gruppi neonazisti e a crescere gli episodi di intolleranza fino all’avanzata incredibile dell’Alternative für Deutschland che, in una zona tipicamente rossa, ha preso il 35% intercettando il malessere sociale. Anche qui ci sono delle similitudini con Corviale, dove la Lega, ancora prima dell’attuale governo, ha ottenuto percentuali di voti sempre crescenti.

Ma nel distretto di Marzahn NordWest il 23% dei cittadini è immigrato, il 56,52% bambini. E Berlino è un città giovane, che dal 2005 assorbe 40 mila abitanti in più ogni anno. Corviale invece, dove muoiono 35 persone l’anno, invecchia e si spopola…
Sì, la composizione generazionale è sicuramente differente. C’è da dire che a Berlino è in atto una netta gentrificazione e di conseguenza anche la composizione sociale di Marzahn sta diventando molto più variegata. Per il quartiere si apre una grande opportunità, una sfida per il futuro. Non a caso ho chiamato ImpAsse il mio lavoro, perché entrambe queste borgate sono ad un vicolo cieco, ma di fronte ad una svolta possibile. A Corviale con la rigenerazione, che già sta cominciando con timidi segnali, perché il quarto piano lentamente si sta liberando, e c’è un forte attivismo delle associazioni di quartiere. A Marzahn con i programmi di inclusione finanziati dal land di Berlino.

Il suo lavoro ha permesso un primo scambio tra i due quartieri. Le sue foto sono state esposte un mese nel centro culturale di Marzahn e recentemente una delegazione tedesca è venuta in visita a Corviale. Su quali punti ci può essere uno scambio proficuo?
In comune hanno di sicuro il verde: Corviale ha una natura rigogliosa che potrebbe essere anche una risorsa, per esempio con un programma di agricoltura che potrebbe creare anche posti di lavoro. Nel quartiere berlinese, dove la cultura ambientale è ben più radicata che da noi, il verde invece è utilizzato soprattutto come parco cittadino, per aumentare la qualità della vita. Sicuramente le buone pratiche ambientali sono uno dei punti su cui potrebbe incentrarsi un lavoro comune, uno scambio proficuo.

Quanto pesano i diversi contesti nazionali?
Tanto. Da noi, in Italia, qualunque iniziativa deve camminare sulle proprie gambe, non ha alcun sostegno da parte delle istituzioni. Ma la cosa interessante, secondo me, è che solo dalla condivisione di parabole sociali piuttosto simili in contesti diversi si possono attivare dinamiche variegate che stimolano riflessione. Perché le buone pratiche non vengono dall’alto, nascono mettendo in comune problemi simili in contesti diversi, sparigliando una routine che limita lo sguardo e crea circoli viziosi. È questo l’obiettivo di questa «fotografia del fare», come la chiamo io.