«La riforma Cartabia del processo civile comprende un capitolo di portata innovativa dedicato a minorenni e famiglie. Le relazioni nelle famiglie si svolgono tra posizioni impari per età, reddito o genere. Gli strumenti del processo civile ordinario sono inadeguati a tutelare tali condizioni di disparità sostanziale. A questo fine, il giudice disporrà di poteri di intervento tempestivo, senza attendere che le parti ne facciano richiesta, per poter riequilibrare le disuguaglianze di fatto». Con Franca Mangano, presidente di sezione della corte d’appello di Roma, fino allo scorso novembre capo dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia, parliamo del nuovo processo di famiglia e di quanto le nuove norme possano aiutare l’irrisolta questione della vittimizzazione secondaria delle madri.

Le norme nazionali e internazionali impongono di accertare ogni richiamo alla violenza. Ma i tribunali, nei procedimenti di separazione, tendono a derubricare la violenza in conflitto. Cambierà qualcosa?
Dei 72 articoli che compongono il nuovo processo di famiglia, 7 sono dedicati alla violenza domestica o di genere. Si applicano a tutti i ricorsi nei quali sono esposti abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere, poste in essere da una parte nei confronti dell’altra o nei confronti dei minori. Prevedono regole speciali per i tempi dei giudizi, che beneficeranno di anticipate corsie preferenziali; sui poteri istruttori dei giudici, che potranno assumere informazioni rivolgendosi anche al pubblico ministero e alle autorità di polizia; sulle particolari cautele da adottare nei confronti delle parti, escludendo per esse l’invito alla mediazione familiare o secretando l’indirizzo della dimora dove la vittima si è rifugiata. Dunque, prima di affermare che non si tratta di violenza ma di conflitto, il giudice deve accertare i fatti che i difensori hanno l’onere di evidenziare.

Come eviterà, la riforma, l’uso della Pas da parte dei consulenti tecnici?
E’ espressamente disposto che, nella consulenza tecnica, le indagini e le valutazioni devono essere fondate su metodologie e protocolli riconosciuti dalla comunità scientifica. Tale non è la Sindrome di alienazione parentale (PAS), come in recenti sentenze ha precisato la Corte di cassazione e come già era stato esplicitato in una nota del Ministero della Salute del 29.5.2020. La diffusione ‘a macchia di leopardo’ tra i tribunali italiani, in gran parte dovuta al difetto di specializzazione dei giudici, sarà auspicabilmente colmata dalla piena efficacia delle nuove norme processuali.

Non solo di Pas si tratta, ma di generiche etichette inesistenti nei codici.
Quanto all’uso di formule generiche (‘condotte alienanti’ ‘conflitto di lealtà’), ritengo che queste possono definirsi effettivamente elusive, solo in quanto non siano ancorate all’accertamento di fatti precisi da parte del giudice. Un accertamento che, proprio in quanto imparziale, non può andare a senso unico. Lo specifico accertamento dei fatti è una garanzia per tutte le parti.

Accertamento, appunto. Ritiene che una allegazione di violenza sia accertabile da una consulenza psicologica?
Senz’altro no. La consulenza tecnica non è un mezzo di accertamento della violenza domestica. Questa deve essere riscontrata sulla base di fatti (minacce, percosse, discriminazioni, intimidazioni) che il giudice deve appurare acquisendo informazioni all’interno dello stesso nucleo familiare, nella cerchia dei parenti e delle persone che hanno rapporti con il nucleo familiare, nell’ambiente di lavoro o nella scuola dei figli. E con la comunicazione tra giudice civile, procura, giudice penale e tribunale per i minorenni. La Ctu, invece, serve per valutare i fatti accertati alla luce di specifiche competenze. Escludo che il processo di famiglia possa fare a meno dei consulenti psicologi o psichiatri, poiché il giudizio finale coinvolge conoscenze che non sono soltanto giuridiche. Tuttavia, delegare il potere di decidere richiamando le conclusioni di una Ctu non è il modo corretto di utilizzare uno strumento di cui, ripeto, è difficile fare a meno.

E come può essere utilizzata correttamente?
La riforma Cartabia ha introdotto nel processo di famiglia precise garanzie di professionalità per i consulenti tecnici. E’ prevista una sezione nell’albo dei consulenti tecnici dedicata agli esperti in neuropsichiatria infantile e dell’età evolutiva e della psicologia giuridica e forense; l’iscrizione è subordinata al possesso di titoli accademici specifici e all’esperienza clinica nella materia della violenza domestica e dell’abuso in danno dei minori.

Ci sono state critiche anche ai metodi e all’uso improprio dei servizi sociali, i quali non sono una parte processuale né subordinati all’autorità giudiziaria.
La tutela delle relazioni familiari non si esaurisce all’interno del sistema giudiziario: allo Stato sociale è richiesto di intervenire perché la protezione dei minori e delle famiglie in crisi sia effettiva. Ma il rapporto con i servizi sociali deve rimanere all’interno delle garanzie giurisdizionali. Le nuove norme dispongono che nelle relazioni dei servizi siano distinti con chiarezza i fatti accertati e le fonti dell’accertamento, le dichiarazioni rese dalle parti e le valutazioni formulate, per garantire la trasparenza dell’operato e il rispetto del contraddittorio.

Come spiega la resistenza dei magistrati ad ascoltare il minore?
L’ascolto del minore è un atto fondamentale del processo di famiglia. La riforma ne mantiene la centralità, disciplinandone i modi. Impartisce disposizioni particolari di ascolto nel caso in cui il minorenne si rifiuti di incontrare un genitore oppure quando si alleghino condotte violente o abusanti all’interno del nucleo familiare. Credo che la resistenza dei giudici a procedere all’ascolto, oltre ad essere motivata da esigenze di celerità dei processi e di tutela dei minori coinvolti in plurime controversie, sia motivata dal sovraccarico di giudizi e dal difetto di specializzazione del giudice civile.

Non crede che il prelevamento forzato verso la casa-famiglia di un minore sia fuori dello stato di diritto?
L’articolo 403 del codice civile, immutato dal 1942, prevedeva che, per tutelare il minore in stato di abbandono o di maltrattamento, i servizi sociali e gli organi di protezione dell’infanzia, potessero intervenire con urgenza collocandolo in luogo sicuro. L’esperienza applicativa ha evidenziato molteplici criticità: tempi lunghi sia nel contatto tra giudice e minore, sia per le informazioni ai genitori. Dal giugno di quest’anno, l’autorità amministrativa deve comunicare l’allontanamento entro 24 ore al pubblico ministero che ha 72 ore di tempo per revocarlo o per chiederne la convalida al tribunale, il quale deve provvedere entro i brevi termini stabiliti fissando un’udienza per sentire i genitori, il minore con il suo curatore speciale. Se la sequenza non è rispettata entro i termini perentori stabiliti dalla legge, il provvedimento perde efficacia.

Un’ultima considerazione?
Se non saranno predisposte adeguate risorse personali (giudici e personale amministrativo) e strumentali (digitalizzazione) a sostegno della riforma, è facile prevedere che tutto questo poderoso progetto, diventato legge dello Stato, sia destinato a fallire e allora sarà un’occasione perduta per la tutela giurisdizionale delle parti più fragili.