Una donna che torna, dopo un rapimento, non è mai la stessa che è partita. E questo vale anche per Silvia Romano.

Le prime reazioni dopo la liberazione penso siano ancora condizionate dallo shock. Per questo credo debbano essere prese con cautela anche le dichiarazioni «emerse» dall’interrogatorio di domenica. Ci vuole tempo perché prendano forma i particolari di una vita vissuta in cattività. Particolari che forse inconsciamente abbiamo negato a noi stesse, così come altri sono stati probabilmente solo la concretizzazione di suggestioni.

Certo ogni rapimento è una storia a sé, ma credo che per una donna trovarsi isolata in un contesto culturale e religioso così diverso da quello in cui siamo cresciute rappresenti una difficoltà maggiore nella comprensione dei comportamenti e delle reazioni dei sequestratori che sono sempre maschi e trucidi.

Che non capiscono spesso le esigenze di una donna, soprattutto quelle del ciclo mestruale, durante il quale si allontanano perché sei «sporca». Il tabù del corpo della donna ha tuttavia un aspetto positivo: nessuna donna occidentale rapita – almeno negli ultimi anni e a quanto mi risulta – ha mai subito violenze fisiche se non quella estrema della morte. Questo non è poco, ma restano le violenze psicologiche. A volte persino più subdole e traumatizzanti.

Importante è anche il contesto in cui si consuma la prigionia: isolate, con altri prigionieri, la possibilità di comunicare con una donna… Certo per comunicare vi è anche il problema della lingua e non penso che gli shabab di oggi conoscano l’italiano come gli anziani che avevano subito la colonizzazione e la presenza italiana anche dopo l’indipendenza. Oltre al somalo si è diffuso l’arabo, soprattutto attraverso le scuole coraniche che, avevo appurato l’ultima volta che sono stata in Somalia, insegnavano la storia e la geografia dell’Arabia saudita! Scuole coraniche che hanno formato molti jihadisti. Già allora a Mogadiscio era in vigore la sharia fatta applicare da una Corte islamica che mozzava mani e piedi senza nemmeno l’anestesia usata, ipocritamente, dai sauditi.

Non mi meraviglierebbe quindi che Silvia si sia trovata in un contesto da «stato islamico».

Questo non vuol dire che non sia rimasta colpita dal suo abbigliamento quando è scesa dall’aereo che l’ha riportata in Italia. Le domande che subito mi sono posta però sono passate in secondo ordine rispetto alla gioia per la sua liberazione. La libertà vale anche per le scelte che lei ha fatto. Anche se dubito che in uno stato di prigionia – per di più durata così tanto – si possa mantenere lucidità e libertà nelle scelte.

Il mio rapimento – fortunatamente – è durato «solo» un mese durante il quale ho sempre mantenuto un atteggiamento conflittuale – e senza una lacrima – con i miei rapitori con i quali comunque comunicavo, come si può rimanere giorni senza parlare, anche correndo il rischio di non farsi capire? E non è mancata nemmeno la suggestione di farmi convertire all’islam facendomi recitare una preghiera – in questo caso con la sciarpa in testa – per dimostrarmi che in fondo era facile la conversione… Ma per fortuna i miei rapitori non erano fondamentalisti e mentre uno diceva che ero una «senza dio» l’altro – più politico – sosteneva che mi vedeva meglio come «combattente» che come donna sottomessa all’islam.

In effetti l’unico risultato ottenuto è stata la conferma di essere atea.

Ma 535 giorni sono lunghi, interminabili, e come sopportarli senza cercare di adattarsi per sopravvivere? E poi i contesti sono diversi – l’Iraq non è la Somalia – e anche i rapitori sono diversi.

Ma la canea che si è scatenata contro Silvia perché si è convertita all’islam non ha limiti e si scontra con il suo sorriso disarmato e disarmante, quasi ingenuo.

Paragonarla a una detenuta nei campi di concentramento che torna vestita da nazista è un orrore inconcepibile e dovrebbe offendere chi ha il senso della storia, ma purtroppo non è così, non c’è il minimo pudore nelle affermazioni di chi si sente in diritto di giudicare.

Come sempre succede quando una donna torna a casa dopo un rapimento la destra si scatena contro il pagamento del riscatto. Lecito o non lecito? Quanto vale una vita umana? I cittadini italiani devono essere tutti salvati o dipende dalle loro convinzioni? È lecito pagare un riscatto che finirà nelle mani di jihadisti e magari anche in quelle di chi ha fatto da tramite, in questo caso i servizi segreti turchi che hanno fatto il loro spot pubblicitario con il giubbotto antiproiettile indossato da Silvia al suo rilascio?

Interrogativi che fanno passare in secondo piano una vita umana solo quando è una donna che deve essere riportata casa, in questo caso si tratta di Silvia «l’ingrata», che per la sua conversione non potrà essere annoverata tra le «vispe Terese» o le «oche giulive», quelle «che se la sono andata a cercare» o, peggio, hanno messo a rischio la vita di chi le ha volute salvare.

Non potrò mai dimenticare che devo la vita a Nicola Calipari e non basta una vita per elaborare questo trauma.

Ho parlato di donne rapite, perché quando è tornato un fotografo convertito nessuno si è pentito di averlo liberato e in nessun caso i rapiti maschi se la sono «andata a cercare».

P.S. A proposito della diatriba Conte-Di Maio, su chi doveva andare a ricevere Silvia all’aeroporto, per quel che vale, quando sono tornata io a Ciampino è venuto Berlusconi e non Fini!