Ormai diventata di uso corrente anche in Italia, ma con ancora visibili le sue origini ispaniche, la parola narcotrafico aiuta a ricordare che l’America Latina è il principale produttore e commerciante di sostanze stupefacenti al mondo.

Nell’anno 1998, le Nazioni Unite diedero la loro approvazione alle strategie globali di guerra a produzione, spaccio e consumo degli psicoattivi, celebrando una conferenza che si intitolava significativamente Un mondo libero dalla droga: possiamo farcela!. Dieci anni dopo, quando il consumo di cocaina era circa raddoppiato e quello di eroina era cresciuto del 120%, George W. Bush firmò il cosiddetto Plan Merida, un trattato col Messico e altri Paesi centroamericani, che ribadiva l’applicazione di una strategia militare per far fronte al problema del traffico di droghe, ripescando il discusso metodo che gli Usa avevano già utilizzato anche nella Colombia di Pablo Escobar.

Nel maggio del 2013, quando le vittime messicane delle narco-mafie erano arrivate a circa 60 mila e l’Honduras era stato indicato dalla stessa Onu come il posto più pericoloso al mondo (proprio per le stesse cattive frequentazioni di bande armate, mercenari e soldati che affliggono il suo vicino del nord), l’Organizzazione degli Stati Americani (Osa) si riuniva e pubblicava un dossier intitolato Scenari per il problema delle droghe in America, nella cui introduzione il segretario generale José Insulza offriva un’unica grande certezza: «Di qui al 2025, saremo ancora afflitti dal problema del narcotraffico», e nel cui testo alcuni esperti ampliavano il concetto, dicendo che le attuali strategie di lotta alla droga erano state un «fallimento completo».

Di lì a poche settimane, il presidente dell’Uruguay, José «Pepe» Mujica faceva presente che questa stessa constatazione, calata sulla sua pacifica realtà nazionale (che pure vedeva aumentare di giorno in giorno i crimini legati allo spaccio), aveva portato lui e i suoi legislatori a proporre la regolamentazione del mercato della cannabis, nonostante né lui, né loro, né la maggioranza dei loro concittadini fossero intimamente favorevoli a un uso ricreativo della ganja.

Oggi l’Uruguay si prepara a diventare entro giugno il primo Paese al mondo in cui la produzione sarà controllata dallo Stato e dove i residenti potranno coltivare, comprare e consumare discrete quantità mensili di cannabis. Circondato da realtà nazionali come quella paraguaiana (grande produzione, ma poca domanda), o quella brasiliana e argentina, dove si raffinano enormi quantità di pasta base di coca, trasformata poi in cocaina che viene esportata o consumata sul posto, il piccolo Stato charrua festeggia per i 40 e passa milioni di dollari l’anno che stima di deviare dal mercato nero ai conti pubblici e per le migliaia di giovani che spera di salvare, ma teme anche di diventare un approdo definitivo per i fumatori da tutto il mondo.

Un pericolo, che sarebbe scongiurato se anche altrove si decidesse di combattere il crimine organizzato liberalizzando il consumo. Una scelta che in quest’area ha fatto concretamente solo la Bolivia, legalizzando la tradizionale masticazione di foglie di coca, ma che presto potrebbe conquistare anche i governi progressisti in carica in Brasile e Argentina, nonché in pectore in Cile.