Tra i tanti demeriti del nazionalismo c’è quello di cementificare i propri assiomi con elementi, personaggi e trame scippati alla Storia e a immaginari collettivi talvolta di per sé innocui o neutri. E’ successo ad esempio alla Storia Infinita e Michael Ende, succede con la cucina italiana. Aveva ragione Bergonzoni già anni fa a implorare «cessate il cuoco», ne avrebbe ancora di più oggi che la sovranità alimentare è finita nel nome di un Ministero, e che un Paese in rovina economica invece che attrezzarsi con politiche industriali e salari minimi, esalta ottimi salami locali quali maggiori paladini della sicura ripresa e tratto identitario irripetibile.

IL RISCHIO, A SENTIR PARLARE di presidi alimentari a fronte di export risibile, braccia e menti in fuga dall’agricoltura oltre che dal resto, è che si diventi insofferenti anche verso la pizza, specie quella gourmet, e venga voglia di tirare avanti a McNuggets e Bubble Tea; e poi prendere per i fondelli le favole della destra è divertente.

QUESTO FANNO ALBERTO GRANDI e Daniele Soffiati in La Cucina italiana non esiste (Mondadori), libro discusso, irriverente e temerario: provare a toccare i cibi della nonna, in Italia, equivale praticamente a mettere le mani addosso alla nonna. La non infondata animosità degli autori è tranciante già dal titolo e procede in modo tanto sostenuto da far perdere loro di vista la pista più interessante a favore del reiterato smontaggio delle tradizioni.

La questione più meritevole di attenzione sollevata da Grandi e Soffiati è quella del ruolo di immigrati e emigrati nella definizione della fisionomia culinaria dei luoghi, un aspetto che gli antropologi e storici dell’alimentazione hanno ben presente (e che dovrebbe avere come corollario l’accoglienza del diverso e la serena accettazione della mescolanza) come hanno ben presente che lo solanacee, con cui condiamo pizza e spaghetti e inforniamo a strati ricoprendole di parmigiano, vengono d’oltre oceano.

AI DUE AUTORI VA IL MERITO di aver portato al grande pubblico una questione non nuova e inconfutabile: la tradizione alimentare è molto cangiante e sempre frutto di incontri, scontri, devianze e convenienza commerciale. Non è capitato solo ai prodotti agroalimentari nati nel Vecchio Mondo di aver attecchito in Europa dopo un lungo risciacquo nel Mississippi o nell’Hudson: così è stato per Halloween e anche per il Calendario dell’Avvento, per restare nel reparto feste e gadget. Del resto negli Usa con il marketing vanno forte.

DI CERTO IL CUORE SI SPEZZA anche a chi non è fratello d’Italia a leggere che gli italiani fino alle prime ondate emigratorie erano a nord pellagrosi e a sud morti di fame, e che le strabilianti mamme delle mamme facevano appena un paio di piatti memorabili. La mettono giù pesante Grandi e Soffiati, obbligando a un bagno di umiltà in acque gelidissime; hanno qualche ragione e molto risentimento che si pacifica solo nelle conclusioni del libro dove sono messi in luce i danni del protezionismo (che non porta mai bene, specie ai più poveri) e la pericolosa detonazione suscitata dall’affermazione apodittica della superiorità del cibo italiano unita all’idea che il resto del mondo stia cospirando per distruggere le nostre tradizioni alimentari.

SEMPRE SUL FINALE L’ANALISI degli autori tocca, troppo poco, il tema della cucina come percezione, dell’importanza anche simbolica oltre che nutrizionale del cibo, del supplemento di racconto che vogliamo somministrarci. Credere alle proprie panzane è pericoloso, sì, come lo è perdere l’auto ironia, ma l’invenzione (della tradizione: più volte è citato il testo The Invention of Tradition, dei britannici Eric Hobsbawm e Terence Ranger) se governata è essa stessa un notevole e non deprecabile tratto di identità nazionale.

Il nostro eroe più emblematico, del resto, è il protagonista di una storia di fame, Pinocchio, inemendabile bugiardo per questo sempre esposto al rischio di abboccare alle bugie altrui, che incanta con la sua trama di frottole ma si salva evolvendosi: il ragazzo in carne – infine nutrita – arriva al lieto fine senza il miracolo della resurrezione ma solo riconoscendo, con indulgenza, il burattino di legno che è stato, reliquia prodigiosa (Giorgio Manganelli docet) anche in virtù delle sue fandonie, che continuerà a sfidarlo.