Cento giorni di guerra tra Russia e Ucraina. Più di tre mesi dal giorno in cui le truppe di Mosca hanno oltrepassato il confine e iniziato quella che i vertici del Cremlino si ostinano a chiamare «operazione militare speciale» con il pretesto di «de-nazificare» l’Ucraina e «prevenire le minacce strategiche» ai confini della Federazione Russa.

A oggi non è ancora chiaro quali siano i veri obiettivi della guerra di Putin a Kiev, almeno dal punto di vista territoriale, visto che le truppe russe si sono mosse su talmente tante direttrici da far spesso pensare che il proprio stato maggiore a volte non avesse nessun piano.

Eppure, non è possibile che un paese come la Russia mandi migliaia di soldati a morire (30 mila secondo le stime ucraine, poco più della metà secondo gli analisti internazionali) senza avere chiaro cosa voglia ottenere. Almeno questo è ciò che pensano la maggior parte delle persone che non passano le giornate a cercare di indovinare da quale malattia invalidante sia affetto il presidente russo.

KIEV È STATA ABBANDONATA, così come tutta l’area centro-nord del Paese, Kharkiv e Sumy sono state lasciate alla controffensiva ucraina senza quasi opporre resistenza, nel sud, dopo la conquista di Kherson, la tanto temuta offensiva su Mykolayiv e Odessa non è mai arrivata.

Dopo la conquista di Mariupol, che gli ucraini definiscono «martirio», solo il fronte del Donbass sta regalando qualche timida soddisfazione ai vertici militari russi. Eppure i russi oggi controllano «circa il 20% del territorio ucraino» stando alle dichiarazioni del presidente Zelensky e alle mappe.

Anche in Donbass, tuttavia, il passo deciso dei primi giorni, sembra essersi trasformato nell’ennesimo pantano. Certo, è difficile pensare che Severodonetsk diventi come Mariupol, ma non è impossibile. Molto dipenderà dalla effettiva volontà degli ucraini di ritirarsi interamente dalla città o meno.

Al momento sembra che sia proprio questa la scelta del Comando Est di Kiev, anche perché, come ha dichiarato il presidente Zelensky, «stiamo perdendo tra i 50 e i 100 soldati al giorno in Donbass» ed è evidente che avere truppe sufficienti per continuare a resistere alla spinta russa è una priorità per l’esercito ucraino.

A differenza dell’esercito invasore, che non sembra tenere in alcun conto la vita dei propri militari. Ne avevamo scritto i primi giorni di guerra, l’abbiamo ribadito durante la fase intermedia, quando ancora sembrava che i trattati di pace avessero qualche speranza se non di portare a una tregua quantomeno di sfociare in un incontro tra i due leader, e non abbiamo smesso di ricordarlo dopo l’inizio della cosiddetta “seconda fase” del conflitto.

Dallo stupore per i ragazzini usciti dalla leva e mandati allo sbaraglio sui campi ucraini alla foga dei battaglioni ceceni a Mariupol e in Donbass, passando per Bucha, Irpin e il teatro di Mariupol, la Russia finora non ha terrorizzato il nemico per la potenza del suo esercito ma perle sue azioni indiscriminate. Anzi, ha impressionato il mondo per le enormi difficoltà logistiche nel rifornire le avanguardie e le gravi carenze nella linea di comando che hanno determinato azioni infruttuose e moltissime morti tra i suoi uomini al fronte.

SEMBRAVA che in Donbass fosse diverso. L’esercito di Putin si era mosso rapidamente da almeno tre direzioni e già due settimane fa si parlava di accerchiamento dei territori ucraini. Questa ipotesi non è ancora sfumata, ma sul fiume Seversky i russi hanno tentato almeno 4 volte di passare e sono stati respinti perdendo molti uomini e mezzi, ad Avdiivka e a Pisky non c’è stato sfondamento e l’abbattimento del ponte tra Severodonetsk e Lysychansk, seppure volesse mettere in difficoltà i difensori, potrebbe ritorcersi contro agli invasori. Secondo i principali analisti internazionali e le agenzie governative inglesi e americane il Donbass è praticamente perso per gli ucraini. Ma quanto ci vorrà e a quale prezzo potrà concludersi la sua conquista sembrano il punto dirimente della questione.

SE SUL VERSANTE BELLICO l’Occidente fornisce supporto logistico e strategico senza però impegnarsi in prima persona, su quello mediatico non si risparmia. Tanto da spingere il presidente dello stato leader della Nato, l’americano Joe Biden a rallentare sulla fornitura di armi a lunga gittata agli ucraini. Ne è la prova il dietrofront sulla fornitura dei sistemi missilistici Mrls, che potrebbero essere usati per colpire direttamente il suolo russo.

Biden ha fatto sapere che non intende fornire a Zelensky armamenti che potrebbero essere usati per colpire obiettivi oltre confine. Il motivo è evidente, gli Usa non vogliono essere ritenuti colpevoli per eventuali azioni militari che convincano Putin a estendere il conflitto o a reagire verso i fornitori di tali sistemi. Per questo Washington ha annunciato che fornirà agli ucraini “soltanto” i sistemi “Himars”, meno potenti e in grado di colpire a minore distanza, ma solo dopo aver ricevuto l’assicurazione da Kiev che questi non saranno usati per attaccare il territorio russo.

«IN ACCORDO con la linea Usa» è intervenuto il ministro della difesa britannico Ben Wallace, il quale ha fatto sapere che la Gran Bretagna fornirà all’Ucraina gli M270, missili di lunga gittata che permetteranno a Kiev di colpire obiettivi distanti fino a 80 km.

Dopo cento giorni di conflitto sembra che ancora nessuno dei grandi capi di stato, al netto di qualche isolata dichiarazione di Macron, considerino la fine delle ostilità più importante dell’annientamento della Russia. Di questo passo quanti giorni ancora di guerra dovremo raccontare mentre gli ucraini piangono i loro morti e le famiglie russe ignorano dove siano sepolti i propri figli partiti per una guerra insensata?