Con la campagna elettorale che avanza si vanno definendo anche le posizioni dei partiti sul problema della disoccupazione. Le destre hanno chiarito cosa intendono fare del Reddito di Cittadinanza (RdC): distinguere nettamente tra poveri meritevoli che non possono lavorare e che potranno avere accesso al sussidio e poveri, non meritevoli, ma abili al lavoro che dovranno trovarsi un’occupazione, qualunque essa sia. Per loro ci sono i Centri per l’Impiego e la riproposizione dei voucher come scritto nel programma elettorale di Fratelli d’Italia. Introdotti per la prima volta nel 2003 con la legge Biagi per favorire la regolarizzazione del lavoro domestico, i buoni lavoro sono stati prima liberalizzati a tutti i settori nel 2012 (governo Monti) e poi aboliti nel 2017 (governo Gentiloni).

La liberalizzazione del 2012 era stata presentata come un modo per agevolare le assunzioni regolari nei settori ad alta intensità di lavoro e bassa produttività (turismo, agricoltura, commercio, cura), replicando il modello dei minijobs tedeschi. Come parte integrante delle tanto discusse riforme Hartz, i minijobs hanno rappresentato una delle parti più controverse delle riforme che hanno consentito alla Germania di aumentare i tassi di occupazione, ma al prezzo di una crescita senza precedenti del lavoro povero.

I buoni lavoro replicavano lo stesso schema in peggio per l’assenza del reddito minimo. Adesso la storia potrebbe ripetersi, tornando al punto di partenza. Da un lato viene rivendicata l’abolizione del RdC per chi è povero ma può lavorare, dall’altro, si ripropone il voucher come strumento di inserimento lavorativo, senza rendersi conto che così facendo aumenterà ancora di più l’area del lavoro povero. Ma d’altra parte, per chi vuole abolire il RdC non è rilevante la povertà da lavoro, perché qualunque lavoro, anche quello sottopagato, è preferibile agli effetti perversi dell’assistenza.

Sembra di sentire riecheggiare la vecchia Legge di Say secondo cui “ogni offerta crea sempre la propria la propria domanda”. Tradotto in concreto, il problema della disoccupazione dipende dalle pretese troppo esose di chi non è disposto ad abbassarsi il salario per entrare o rientrare nel mercato del lavoro.
La storia si è già incaricata di sconfessare questo postulato dell’economia neoclassica. Stupisce semmai che a distanza di così tanti anni e nel pieno di una crisi che rischia di avere effetti di nuovo devastanti, si pensi ancora che la disoccupazione sia una scelta e che il rimedio non possa che essere l’abbattimento del costo del lavoro. Insomma, tutto il contrario di chi vorrebbe il rafforzamento del reddito minimo e anche l’introduzione del salario minimo.

In Italia abbiamo dovuto attendere decenni prima di arrivare all’introduzione di una effettiva politica contro la povertà. Il RdC non è certo esente da criticità: la scala di equivalenza troppo generosa con i single e poco con i nuclei familiari, l’estromissione degli immigrati, la mancanza di meccanismi di cumulo tra lavoro retribuito e sussidio, in ultimo una retorica antifannulloni che già dalla sua introduzione con il governo Giallo-Verde prefigurava un modello di politiche attive del lavoro, non solo punitivo ma di difficile implementazione. E qui veniamo alle posizioni di chi, pur favorevole, chiede una profonda revisione dello strumento, in particolare per quello che riguarda le politiche attive del lavoro.

L’idea dominante è che sia il mismatch tra domanda e offerta il problema su cui intervenire, agendo su occupabilità, adattabilità e sanzioni per la mancata accettazione delle offerte di lavoro. Niente è previsto sulla domanda di lavoro, come fosse un oggetto misterioso. Semmai viene sempre riproposto il tema degli incentivi alle assunzioni, peraltro già previsti dall’attuale normativa sul Reddito di Cittadinanza e di fatto poco utilizzati dalle stesse imprese.

Chiunque vinca le prossime elezioni dovrà confrontarsi con un quadro del mercato del lavoro già critico e destinato a peggiorare. Ma se i voucher sono la soluzione peggiore, altrettanto rischioso è continuare a pensare che il problema sia solo il mismatch. Se non si interviene sulla domanda, versioni meno punitive del workfare non cambieranno i problemi di fondo che rendono difficile ritrovare una occupazione per i beneficiari di sussidi.

Per questa ragione più che continuare a finanziare programmi per l’occupabilità sarebbe il caso di pensare a qualcosa di radicalmente diverso, ad esempio una vera job guarantee europea, un programma finanziato dall’Europa per creare non stage e tirocini fini a sé stessi o lavoro gratuito nei servizi di comunità per i percettori di reddito minimo, ma lavoro vero e utile per rispondere ai bisogni emergenti (sociali, produttivi, ambientali, legati alla transizione green e digitale) che impattano sui territori, spesso però rimanendo a uno stato di latenza per l’assenza di una vera strategia per la creazione diretta di nuova occupazione.