«Siamo la continuità, non la rottura». Il messaggio che Miguel Díaz-Canel – a nome della nuova generazione di leader cubani – ha portato all’Assemblea generale delle Nazioni unite la settimana scorsa è stato chiaro. Di fronte ai leader politici del pianeta il presidente cubano ha rivendicato l’eredità di Fidel Castro, ribadendo che la rivoluzione cubana è una forza di pace, di progresso e di dignità dei popoli, come lo aveva fatto 58 anni fa il leader dei Barbudos vittoriosi contro la dittatura di Batista. Per questo, ha condannato l’embargo col quale da più di cinquantanni gli Stati uniti tentano di abbattere il governo socialista di Cuba.

«FIDEL È TORNATO all’Assemblea generale» ha titolato il quotidiano del Partito comunista cubano Granma proprio sottolineando questa continuità politica che Díaz-Canel ha rivendicato per la propria generazione, impegnata ad affacciarsi alla guida dell’isola.

Il messaggio è stato recepito, visto l’interesse che un nutrito gruppo di leader mondiali e di congressisti (democratici e repubblicani), imprenditori ed esportatori statunitensi, hanno mostrato per incontrarlo e per discutere con lui. Il presidente ha dimostrato di essere un leader capace di reggere il ruolo di “erede” dei fratelli Castro, sia nel mantenere la bussola politica sui grandi temi strategici più volte affrontati da Fidel – socialismo e lotta all’imperialismo, disarmo, ecologia – sia negli incontri bilaterali, nei quali ha espresso posizioni più pragmatiche nella linea delle riforme economico-sociali iniziate da Raúl.

ALTRO ELEMENTO di continuità è stata la solidarietà di noti artisti e promotori culturali statunitensi che hanno incontrato il presidente cubano nell’emblematico edificio Dakota (dove viveva e fu assassinato John Lennon). A salutarlo è stato Robert De Niro, il quale ha sottolineato come «i buoni vicini non costruiscono muri, perché la cultura deve servire a gettare ponti». Il punto culminante di questa sorta di “consacrazione” è stata la visita di Díaz -Canel alla chiesa di Riverside ad Harlem, la stessa dove Fidel fu ricevuto e dove (Granma) «il popolo umile diede il benvenuto e protesse la delegazione cubana», allora fortemente contestata e minacciata dalla nascente contra degli (auto) esiliati, che tre anni dopo tentarono l’invasione armata di Cuba nella Baia dei Porci.

 

Díaz-Canel con Robert De Niro al Dakota Building

 

A DIFFERENZA di mezzo secolo fa Díaz-Canel è stato anche salutato con entusiasmo da un nutrito gruppo di cubano-americani. «Siamo tutti Cuba, contiamo su di voi» ha detto loro il presidente, con l’invito a usare le comuni radici per stringere i rapporti culturali, ma anche – e soprattutto economici – tra le due sponde del Golfo di Florida. Da parte sua ha dato prova di cubanismo esibendosi al tamburo tumbadora e ballando salsa.

Non altrettanto successo hanno registrato i tentativi diplomatici del presidente di ricondurre le relazioni economiche con gli States al punto in cui erano giunte con il presidente Barack Obama. Díaz-Canel ha ribadito che è responsabilità del presidente Donald Trump aver ingranato la marcia indietro rispetto al suo predecessore, sia riproponendo l’embargo unilaterale come elemento «essenziale e definitorio» nelle relazioni bilaterali con Cuba, sia promuovendo «programmi pubblici e segreti per una pesante intromissione nei nostri affari interni». Di fronte a questa politica che ricorda gli anni delle guerra fredda, il leader cubano ha affermato che «Cuba sarà sempre disposta a dialogare sulla base del rispetto reciproco e di uguaglianza tra Stati: mai faremo concessioni che minino la nostra sovranità nazionale». In particolare – ha affermato – sul «carattere irrevocabile del nostro socialismo».

NESSUNO SI FA ILLUSIONI però che l’offerta possa trovare ascolto alla Casa bianca con un presidente aggressivo e per di più assistito da falchi ai quali si è aggiunto nelle ultime settimane il cubano americano Mauricio Claver-Carone uno dei personaggi che si sono con più decisione battuti contro la politica aperturista di Obama.

AL RIENTRO ALL’AVANA, Díaz-Canel è stato ricevuto da Raúl Castro. L’abbraccio del leader storico e primo segretario del Partito comunista suggella la “consacrazione” internazionale del nuovo presidente. Il quale ora dovrà affrontare due compiti urgenti: la riforma della Costituzione per dare una nuova base normativo-legale all’ulteriore sviluppo delle riforme economico-sociali iniziate da Raúl e affrontare una situazione altamente pericolosa in America latina. La “defezione” del presidente ecuadoriano Lenin Moreno ha indebolito il fronte bolivariano mentre la crisi del Venezuela si acuisce e aumenta il rischio di un intervento armato “umanitario” per abbattere il governo del presidente Nicolás Maduro.

IL PROGETTO DI RIFORMA costituzionale è oggetto di una gigantesca consulta popolare che durerà fino a metà novembre. Poi verranno valutate le proposte popolari e infine il testo definitivo sarà messo a referendum in febbraio. Díaz Canel ha descritto questo processo come «un esercizio genuinamente partecipativo e democratico».