Uno spettro si aggira per l’Europa: i gilet gialli e il timore che il movimento di protesta esploso in Francia nell’autunno del 2018 a causa di un aumento di qualche centesimo del litro di benzina si estenda a tutto il continente. Il prezzo dell’energia è in aumento considerevole e le bollette delle famiglie sono destinate a una crescita esponenziale. Con il rischio di proteste che finiranno per bloccare il programma Ue di riduzione delle emissioni di Co2, il «Fitfor55», che prevede una riduzione del 55% dei gas a effetto serra entro il 2030, attraverso 13 proposte di legislazione nell’ambito del Green Deal.

«Non possiamo permetterci che la questione sociale finisca per contrapporsi a quella climatica» ha affermato ieri al Parlamento europeo il vice-presidente della Commissione incaricato delle questioni climatiche, Frans Timmermans. «Vedo chiaramente questa minaccia». La Commissione teme che i governi degli stati membri, spaventati dal malcontento dei cittadini e dal rischio di proteste, facciano passi indietro e rallentino il ritmo della riconversione energetica, bisogna «impedire che la crisi del clima vada fuori controllo».

La Commissione si è detta pronta a ridiscutere «le misure del Fitfor55» , per salvarne il contenuto, attivando la leva dei finanziamenti, per evitare che a pagare siano i più poveri. Timmermans, però, non intende indietreggiare e spinge per «velocizzare la transizione, di modo che siano disponibili per tutti energie rinnovabili economiche». Secondo Timmermans, «se avessimo fatto il Green Deal 5 anni fa, non saremo in questa situazione». Per il commissario, il rialzo del prezzo dell’energia dipende solo «per un quinto» dall’aumento del prezzo della tonnellata di Co2 (ormai supera i 50 euro) nel meccanismo di Emission Trading System in vigore, che ormai è stato esteso anche ai trasporti e all’edilizia. La Commissione ritiene comunque che il sistema attuale sia «migliore» di quello passato, quando l’energia era in mano a monopoli di stato, perché favorirebbe, assieme alla concorrenza, anche la transizione verso le rinnovabili.

Il rialzo dei prezzi dell’energia è la brutta sorpresa della ripresa economica dell’uscita dalla crisi del Covid. C’è maggiore domanda, mentre la produzione non segue. Il prezzo del gas si è moltiplicato di sei volte, è al livello più alto da vent’anni. Il petrolio è aumentato del 55% in un anno, quest’estate è arrivato a 75 dollari il barile, il presidente di TotalEnergies, Patrick Pouyanné, non esclude che possa arrivare a 100 dollari. Il costo del megaWatt/ora è arrivato a 80 euro, mentre era di 46 euro nel 2020.

Gli investimenti nel settore dell’energia fossile sono in diminuzione dal 2015, c’è carenza di materia prima. Il prezzo di «mercato» della tonnellata di Co2 è cresciuto, con lo scopo di rendere le energie fossili meno competitive. La Germania, malgrado la pressione degli Usa e lo scontento di parte dei partner europei, ha accelerato la conclusione della pipeline North Stream II nel mar Baltico, per importare gas dalla Russia, senza passare per l’Ucraina: l’attuale governo teme l’arrivo dei Grünen al potere, che potrebbero rimettere in causa la struttura e lasciare l’industria tedesca a corto di energia.

La Norvegia, che ha basato il suo benessere sul petrolio, si interroga. Francia e Gran Bretagna hanno deciso di abbandonare il carbone dal 2024. Ma Edf, la società di elettricità francese, che opera anche in Gran Bretagna, in questi giorni ha dovuto rimettere in funzione una centrale a carbone oltreManica, perché l’eolico è in difficoltà: manca il vento per far funzionare a pieno ritmo il parco al largo della Scozia e dell’Inghilterra, che dovrebbe fornire fino a un quarto dell’energia britannica. In Francia c’è il nucleare, ma c’è stata una riduzione da 58 a 56 reattori con la chiusura della più vecchia centrale del paese e sono in corso molti lavori di manutenzione.

Il 2030 è dietro l’angolo, la Ue è in ritardo nella riconversione e continua a rimandare la decisione sulla «tassonomia» delle energie: le lobby sono in piena attività per non far escludere il gas e il nucleare, come chiedono gli ambientalisti. Una ricerca di The Lancet Planetary Health, realizzata da università Usa, Gran Bretagna e Finlandia in 10 paesi (Francia, Gran Bretagna, Finlandia, Portogallo, Usa, Australia, Brasile, Nigeria, India, Filippine) rivela che il 59% dei giovani dai 16 ai 25 anni sono «molto» o «estremamente inquieti» per il clima e che addirittura il 45% vive ormai in uno stato di «ansia climatica».