Peter mostra il trattore in pezzi al centro del suo cortile e mima con un movimento del braccio il missile che l’ha colpito. Sabato scorso cinque ordigni hanno colpito il villaggio di Lymany e due di questi sono caduti proprio nei pressi della casa di Peter distruggendo il suo mezzo da lavoro e creando un gran cratere nel campo a una decina di metri da casa sua.

Mentre mima con lo stesso gesto della mano il moto parabolico dei missili sulle case dei vicini e sui campi mezzi incolti i boati dell’artiglieria sono incessanti. Durante una scarica più forte e più vicina lo guardo e mi tranquillizza toccandosi il petto, «lo vedi, io non ho neanche il giubbotto antiproiettili, se cade qualcosa qui vicino mi faccio più male io» e ride bonariamente sotto i baffi grigi.

PETER HA 70 ANNI, sua moglie è morta due anni fa «per un male ai polmoni», forse di Covid, e le due figlie vivono in Moldavia, a pochi chilometri dalla frontiera con l’Ucraina. Perché non se ne va? «Non voglio andare in Moldavia, sono ancora in grado di lavorare, la casa è ancora in piedi e qui c’è molto da fare, certo senza questo». Tocca un pezzo di lamiera del trattore quasi come se volesse accarezzarlo poi si volta al suono di un campanaccio e saluta una coppia di vicini di mezza età che passano chiacchierando con una capra a catena.

VICINO A LYMANY fino a due settimane fa c’erano i russi, ora gli ucraini hanno riconquistato terreno e le truppe degli invasori sono più a sud, «oltre Lupareve» come spiega un soldato dell’ultimo posto di blocco prima dell’inizio della campagna. «Ma quanta gente è rimasta qui?» chiedo a Peter e lui risponde che a parte le vacche, che prendono il sole su un campo in collina a poche centinaia di metri, erano già pochi prima e ride di nuovo. Quando gli domando se si aspettava questo dai russi, lui che è nato e cresciuto nell’Unione Sovietica risponde che «non ha nessun senso, noi qui siamo contadini, non c’è niente di prezioso in questa zona a parte la terra che da sola non si lavora e gli animali che neanche sono tanti, ma» aggiunge, «il più pazzo di tutti è Putin che si crede uno zar». È evidente che Peter non odia i russi come popolo e allora gli chiedo se per lui andrebbe bene che il suo villaggio passasse sotto il controllo russo.

«NO, IO STAVO BENE PRIMA della guerra, guarda ora cosa sta facendo Putin (indica il trattore e poi l’orizzonte mentre continuano i boati), non voglio morire sotto la bandiera di un folle».
Inutile parlare del 2014, del Donbass e della Nato, Peter, come moltissimi ucraini di campagna, è stato toccato solo di striscio da quelle vicende e per lui, contadino del quarto produttore ed esportatore di beni agricoli del mondo, il segno più grande del disastro in corso sono i campi incolti, che mi indica con gesto rabbioso, l’unico che gli vedo fare. A proposito della produzione di grano, secondo fonti inglesi, il raccolto di quest’anno dell’Ucraina sarà inferiore di almeno il 20% rispetto al 2021 a causa della riduzione delle aree di semina dopo la guerra, il che ne farà aumentare il prezzo globale gravando soprattutto sui paesi in via di sviluppo.

Ma i problemi a Lymany sono più immanenti e quando mi congedo Peter mi accompagna al cancelletto di ferro del cortile legato con il fil di ferro, lo alza e nel darmi la mano dice «gloria all’Ucraina», il motto dei difensori. In realtà, ciò che Peter ha deprecato fermamente potrebbe presto accadere a Kherson. L’amministrazione occupante vuole indire un referendum per decidere sull’indipendenza dal governo di Kiev.

NELLE SCORSE SETTIMANE si è parlato dell’organizzazione di autobus dalla Crimea per rimpinguare le fila degli indipendentisti, dalla città alcuni profughi hanno testimoniato che la tessera degli aiuti alimentari sarà uniformata a quella elettorale costringendo, di fatto, chi vuole cibo a recarsi alle urne.
È difficile verificare queste informazioni, tuttavia non è affatto complicato affermare che una votazione organizzata da una giunta militare, con una guerra in corso, in un territorio occupato e senza alcun osservatore imparziale esterno manchi di tutti i presupposti che sono alla base del suffragio stesso. Nel frattempo, oggi, il governatore regionale e il sindaco del capoluogo sono stati sostituiti con due politici filo-russi, Volodymyr Saldo, già sindaco della città negli anni scorsi ma favorevole all’occupazione fin dall’inizio, al palazzo dell’oblast e Alexander Kobets, autista del precedente primo cittadino, al municipio.

INTANTO A MYKOLAYIV sono continuati i bombardamenti e almeno due edifici residenziali sono stati colpiti durante la giornata. A poca distanza, nella città di Ochakiv, missili antinave X-35 hanno colpito delle case lungo la linea costiera. Al momento, per fortuna, in entrambi i casi non si hanno notizie di morti o feriti. Anche nell’oblast di Odessa ieri si è registrato un nuovo attacco, dopo quello in pieno centro durante la vigilia di Pasqua. Un attacco missilistico russo ha reso inagibile il ponte che va da Zatoka a Bilhorod-Dnistrovsky, sull’estuario del fiume Dniestr. Sembra chiaro che l’intenzione fosse quella di tagliare le linee di rifornimento che provenivano dalla Romania e che attraverso quella strada potevano giungere a Odessa o deviare per il nord dell’Ucraina.

Poco più a nord, secondo lo stato maggiore ucraino, le truppe russe in Transnistria, sarebbero in «piena allerta». Quasi in contemporanea, i media russi hanno iniziato a diffondere la notizia che il territorio separatista moldavo «potrebbe presto decidere di proteggere i suoi interessi strategici».