Nunzio D’Erme ha una lunga storia politica di movimento, dentro-fuori le istituzioni, a fianco dei senza-diritti. Per 9 anni è stato consigliere comunale al Campidoglio, eletto come indipendente con Rifondazione comunista, ed è stato il più votato. Preferisce però definirsi «un militante di base che sta nella struttura del Centro sociale Corto circuito e nell’esperienza più larga di Cinecittà bene comune, e che mantiene un rapporto forte con il ciclo di lotte radicali degli anni 70-80». Il Corto circuito oggi compie 25 anni, secondo per età solo al Forte prenestino, altro spazio occupato e autogestito a Roma. Per l’occasione, il Centro sociale organizza cinque giorni di dibattiti, mostre e buona cucina.

Com’è iniziata la vostra esperienza?
Molti di noi hanno cominciato a far politica da giovanissimi, a scuola, nel pieno del ’77 e della sua radicalità. Ho seguito tutte le evoluzioni e le vicende delle aree politiche più esposte di quegli anni. Gli anni ’80, quelli dell’arricchitevi e del neoliberismo, stavano smantellando un orizzonte di trasformazione. Le reti di movimento organizzate erano state distrutte, l’ipoteca dell’emergenza aveva pesato non poco. Con il mutamento del Partito comunista, stava venendo meno anche quella spinta riformista e socialdemocratica esistente nella società. Avvertivamo l’esigenza di ristabilire un rapporto coi quartieri e i settori popolari di cui ci sentivamo parte. Intorno a noi, c’era anche una diaspora di militanti che non aveva più un luogo politico organizzato in cui ritrovarsi, in quei quartieri dove il Pci era stato molto forte, in cui c’era una tradizione e una storia. Siamo ripartiti dai bisogni, ma con l’idea di ricostruire l’opposizione sociale. Non volevamo un ghetto delle persone che ci assomigliavano di più, ma una casa del popolo. La palestra popolare, il campo di calcetto, la cucina che ha cominciato a fornire cibo di qualità a basso costo, nascono con l’idea di provare a costruire livelli di auto-organizzazione sociale: elementi di una nuova società, perché la rivoluzione non è un golpe, il livello di radicalizzazione si costruisce nel tempo in un rapporto complicato ma necessario tra conflitto e consenso. I centri sociali erano le nostre casematte. Abbiamo cominciato dalle battaglie per la difesa dei servizi, contro la cementificazione e la privatizzazione delle aree verdi. Abbiamo occupato spazi abbandonati e li abbiamo restituiti al quartiere, riallacciandoci alla tradizione comunista per cui la socialità era elemento di ricomposizione politica e di confronto.

Un centro sociale che si comporta da partito?
Beh, all’origine c’era un’eresia rispetto al modo di far politica negli anni precedenti e alla divisione tra sindacato e partito: per noi il sociale era immediatamente politico, abbiamo provato a ribaltare la prospettiva. Fra noi la componente marxista e leninista era predominante, ma c’erano anche ex di Lotta continua, libertari. E poi volevamo anche riappropriarci del diritto alla felicità, ricostruire una socialità non solo per i proletari ma anche per noi, dopo un lungo periodo in cui il sacrificio personale era un imperativo comune.

Il Corto Circuito ha poi dato linfa a molte battaglie di movimento.
Prima di tutto alle Tute bianche, che compaiono per la prima volta a Milano nel ’94, durante il corteo contro lo sgombero del Leoncavallo. Quel simbolo degli invisibili che prendono la scena diventerà un elemento forte negli anni in cui, a Roma, sta nascendo il coordinamento dei centri sociali. Molte strutture autogestite, pur nelle differenze, si coordinano, occupano gli spazi e li difendono, lottano contro i fascisti che cercano di prendersi i quartieri popolari e che spesso usano i proprietari per mettere in difficoltà il centro sociale. Come si fa a essere credibili nel quartiere se ogni sera devi fare a botte o viene appiccato il fuoco come hanno fatto al Corto? Diventi un problema di ordine pubblico. Noi però siamo riusciti a ribaltare lo schema, a isolare i fascisti, a impedirgli di radicarsi nelle zone povere e abbandonate dalla politica tradizionale, abbiamo mantenuto aperti degli spazi di agibilità democratica e di libertà. In quel quadro emergono anche ipotesi a livello nazionale, le Tute bianche compaiono sempre più spesso. Proviamo a innescare alcune battaglie come quelle dell’amnistia per i prigionieri politici degli anni ’70 e ’80. In quel periodo c’era il caso Sofri. A noi interessa capire il contesto in cui si è prodotta una rottura politica così lunga e radicale. Facciamo dei seminari allargati sull’Italia delle stragi, discutiamo del ’68, del femminismo, delle lotte operaie del ’69 e di quelle che le hanno precedute. Quando e perché un movimento comincia a fare esercizio di autodifesa? E che succede dopo? Pensiamo all’esperienza delle Black Panter negli Stati uniti… Oggi c’è un’altra Italia, alcune contraddizioni come quelle di Tangentopoli sono state affrontate dalla magistratura, senza una critica di sistema, e il malaffare non è finito, così come non si è trovata la verità sulle stragi di stato. Questo è un paese in cui un magnate svizzero che distrugge tante vite con l’amianto non paga niente, ma chi rompe una vetrina si prende 10 anni. Un paese in cui i torturatori di Genova vengono premiati, i movimenti di lotta per la casa perseguiti. Una certa sinistra di governo sembra temere più le pratiche di alternativa che il fascismo e la xenofobia. Le tragedie in mare mostrano la tracotanza di mondo ricco e neocoloniale che attira gli affamati con false promesse e poi non risponde alla loro richiesta di diritti.

Cosa vi proponete ora?
Intanto un bilancio, un riattraversamento a più voci. Quella della politica istituzionale è una porta stretta i cui meccanismi possono stritolarti o cooptarti, per evitare entrambi bisogna costruire forza e democrazia partecipata all’esterno. Io ho avuto la delega al bilancio partecipativo. Un’esperienza interessante, portata avanti a Cinecittà anche con Sandro Medici al municipio. Senza una sponda politica che qualifichi i comportamenti individuali, si può finire a coltivare i propri orticelli, dimenticando gli obiettivi di partenza e l’orizzonte. E’ comodo sentirsi di sinistra stando in poltrona, guardando storto quelli che continuano a rischiare nelle situazioni. I guasti di Roma capitale sono anche frutto di un’impasse che ha fatto scadere la politica a interessi personali, a posti di lavoro e piccoli privilegi da mantenere. Oggi il Corto non esprime più la stessa forza che in passato, ma rimane un centro sociale con un forte bacino popolare, con una serie di attività. Dalla nostra esperienza di autogestione si proietta ancora un messaggio forte che si collega a quanti, in Europa e nel mondo, si pongono il problema di un’alternativa che parta dal basso e non dai piccoli o grandi ceti politici. Uno degli assi di confronto è quello sui paesi dell’Alba come modello per l’Europa. Da lì arriva un forte stimolo alla ripresa dell’alternativa. Propongo una grande assise internazionale, per riavviare il motore di un nuovo blocco sociale.