La brutale repressione da parte delle forze di sicurezza non basterà di certo a fermare la rivolta del popolo cileno. Sotto lo slogan «Non sono 30 pesos, sono 30 anni», in riferimento all’aumento del costo dei trasporti e ai tre decenni dalla fine della dittatura segnati dalla medesima ingiustizia sociale, i manifestanti continuano a scendere in strada chiedendo la rinuncia di Piñera, un reale cambiamento politico-economico e il ritorno dei militari nelle caserme.

Ma a revocare lo stato d’emergenza il governo, al momento, non ci pensa proprio, come mostra la decisione di chiamare in servizio i riservisti per sostenere l’operato delle forze di sicurezza: reprimere stanca, e, come ha spiegato il ministro degli Interni Andrés Chadwick, i militari impegnati «in lunghe e dure giornate» di lavoro meritano di riposare. Non per niente, come ha rivelato Radio Bío Bío, l’esercito ha dovuto spendere 50 milioni di dollari in meno di 24 ore per l’acquisto di 56.725 cartucce antisommossa.

Quanto all’esito di questo duro lavoro, l’ultimo aggiornamento fornito dall’Instituto Nacional de Derechos Humanos (Indh) parla di 18 morti – ma potrebbero essere di più -, 582 feriti, di cui 295 con colpi di arma da fuoco, 2.840 arrestati, di cui oltre 270 minorenni. 37 le cause legali presentate dall’Indh, tra cui 5 per omicidio, 12 per violenza sessuale e diverse altre per tortura e violenza spropositata, come nel caso di quattro manifestanti, tre adulti e un minorenne, «crocifissi sulla struttura metallica dell’antenna del commissariato» di Peñalolén. Un caso, questo, che ha fatto particolarmente scalpore, dando vita giovedì a una protesta davanti al commissariato dispersa con gas lacrimogeni e bastonate.

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Come pure ha destato grande commozione la morte del 39enne Alex Núñez Sandoval, il quale, sorpreso dal coprifuoco mentre manifestava pacificamente, era stato selvaggiamente percosso dai carabineros, che si erano accaniti su di lui mentre era a terra. Sarebbe morto il giorno successivo per trauma cerebrale, dopo aver vomitato sangue.

E sulle violazioni dei diritti umani registrate nel quadro dello stato d’emergenza scende in campo anche Amnesty International, annunciando l’invio di una missione mirata a documentare «i possibili crimini di diritto internazionale commessi dalle forze dello stato». Che avrà molto da fare non ci sono dubbi: innumerevoli infatti le denunce di tortura e detenzione illegale, come quella di Valentina Miranda, portavoce del Coordinamento degli studenti secondari, che, prelevata da un palazzo senza aver neppure violato il coprifuoco, è stata portata in commissariato, dove i carabineros, dopo averla colpita e trascinata per i capelli, le hanno gettato in faccia gas al peperoncino.

E di torture, aggressioni, cure mediche negate e vessazioni sessuali ha parlato anche l’Associazione di avvocate femministe, denunciando il rifiuto del governo di consegnare le informazioni richieste sui detenuti: «Siamo in uno stato di diritto, non in guerra».